di Ugo Perugini —-
Dal 5 luglio al 6 ottobre, “Le impronte della memoria”, oltre 70 opere di Remo Bianco (1922-1988) esposte al Museo del Novecento, in una mostra promossa dal Comune di Milano, a cura di Lorella Giudici, in collaborazione con la Fondazione che porta il nome dell’artista
La memoria delle piccole cose. Ecco quello che a Remo Bianco interessa preservare della vita. Aspetti secondari, magari marginali, futili se vogliamo, intimi forse, ma che hanno segnato e segnano le nostre emozioni più profonde, più radicate, impresse nella mente come “imprinting” inconsapevoli. E che ci portiamo dietro, volenti o nolenti. Sempre.
In fondo, lui stesso ne è un esempio. Guardiamo, le sue Pagode, quelle costruzioni che sembrano castelli di carte da gioco, impilati in modo precario, oppure gli stessi Tableaux dorés – uno dei suoi cicli più noti – opere anch’esse simili a carte da gioco distribuite una accanto all’altra sulla tela. Perché le carte da gioco, ci possiamo chiedere? La risposta è semplice e ci arriva dal passato del piccolo Remo, quando abitava in via Giusti a Milano.
La madre cartomante
Qui, nella sua casa, che poi diventò anche il suo primo studio, quando era un ragazzino osservava la madre che “faceva la cartomante”, leggendo i tarocchi alle donne del vicinato. Una attività di ripiego ma necessaria per sbarcare il lunario in un periodo non certo facile dal punto di vista economico, e che in genere veniva ripagata con qualche primizia dei numerosi orti coltivati nella zona che si trovava proprio nel “borg de schigulatt” (borgo degli ortolani)
E se osserviamo meglio questi due cicli, notiamo l’abbondante uso di foglie d’oro e d’argento, altri segnali in questo caso di ricordi orientali che riaffiorano e che gli derivano dai suoi viaggi in Oriente, a partire dalla prima avventurosa esperienza come giovanissimo marinaio, naufragato sulla costa tunisina.
Allora tutto è ricordo?
Per Bianco il ricordo è davvero una filosofia di vita. Non il ricordo di avvenimenti importanti. Ma proprio di quelli più minuti, apparentemente più insignificanti. Forse, un ruolo in questa sua ansia di preservare i ricordi l’aveva giocato anche il suo maestro De Pisis, che Bianco incontrò a Brera, quando aveva 17 anni (in quell’occasione, si era trattenuto i resti dei tubetti di colori che il maestro aveva avanzato).
Ecco allora i Collages, le Testimonianze, sacchetti di plastica contenenti piccoli oggetti, giochi, fermagli, conchiglie, piume, ecc. , raccolti quasi con una specie di ansia disposofobica, resa meno maniacale dal suo spiccato senso dell’umorismo e dell’ironia, oltreché dal suo gusto per il gioco. Ma se il tempo passa, come fare per fermarlo? Ecco che Bianco per evitare che questi ricordi gli sfuggano, fa calare su di essi tenere nevicate bianche, che ibernano gli oggetti in un mondo immoto e fantastico, le famose Sculture neve; oppure li imprigiona nel gesso, ne fa dei calchi in gomma o cartone pressato, per preservarne le forme, il famoso ciclo di Impronte. Come non pensare a qualche eco delle nature morte (le famose conchiglie) di De Pisis?
Bianco fu un artista eclettico
Che fosse un artista eclettico, Bianco se lo diceva da sé e non poteva farne a meno, anche se era convinto che “la discontinuità, e l’eccessiva libertà” in arte non viene facilmente perdonata. Bianco per questo motivo non è catalogabile in scuole o movimenti. Se per caso in qualche circostanza entrò in qualche gruppo ne uscì presto o rimase un isolato. Per suo conto, nel 1965, egli darà il via alla cosiddetta “Arte improntale”, che ha per protagonista il Tempo-Destino e dove l’impronta è ciò che è importante perché resta impresso nel nostro subconscio. L’arte improntale diventerà Arte Sovrastrutturale, della quale fanno parte le Sculture calde, le Trafitture e le Sculture neve.
Dopo l’impressionismo di De Pisis, Bianco si avvicinò all’espressionismo astratto di Pollock (fu uno dei primi a incontrarlo di persona) e in qualche modo fu precursore di un certo spazialismo, prima di Lucio Fontana. Ricordiamo il ciclo 3D, opere realizzate con strati sovrapposti di legno sagomato e smaltato. Opere che egli stesso non esitò a definire “fredde e cerebrali più dell’impressionismo astratto”.
Soluzioni pionieristiche
Anche per quanto riguarda i materiali utilizzati, Bianco è uno sperimentatore incredibile che spesso trova soluzioni pionieristiche e originali. Vetro, plastica, plexiglass, cristallo, gomma, carta. Ma anche trovate a dir poco spiazzanti per l’epoca, come i Quadri Parlanti, una tela nera o bianca o con una immagine fotografica e un registratore che si attiva con una cellula fotoelettrica facendo partire una registrazione della voce dell’artista, spesso dolente, per condannare “l’indifferenza che ci circonda”.
Accanto ai Quadri parlanti, poi, Bianco porterà in mostra i suoi “grilli parlanti”, telefoni collegati a cassette stereo contenenti registrazioni dal vivo di personaggi di varia umanità (tanto per fare un esempio: il Matto, Maria, Mala 1, Mala 2, la Famiglia, ecc.) con un certo successo di pubblico.
Sostituire il Campanile di San Marco?
Inutile dire che Remo Bianco fu anche un personaggio per certi aspetti provocatorio. Ricordiamo che nel 1972 aveva proposto l’idea di sostituire il Campanile di San Marco (che egli definiva “brutto e decadente”) con una delle sue pagode fatta di rettangoli uniti al vertice come mani in preghiera. Vi fu persino un imprenditore tedesco disposto a finanziare l’opera per 15 milioni di marchi.
Questa opera doveva avere anche un valore religioso universale, in quanto all’interno del nuovo campanile sarebbe stato sistemato un computer che avrebbe risposto a ogni quesito di carattere spirituale, diffondendo messaggi di solidarietà e di fratellanza umana in tutte le lingue del mondo. Progetto che, per ovvi motivi, non ebbe seguito.
A parte queste considerazioni un po’ folcloristiche, Bianco, ricercatore solitario come amava definirsi, resta un artista importante, troppo spesso trascurato, che la mostra del Museo del Novecento, quasi trent’anni dopo quella dell’Arengario del 1991, si incarica di riportare all’attenzione del pubblico e che vale la pena conoscere più a fondo.
Silvana Editoriale ha realizzato il catalogo che riporta lo stesso titolo della mostra “Le impronte della memoria”, 224 pagine, 140 illustrazioni, 28 euro.