Nasce nella nostra città nel 1912 da una famiglia molto benestante. La mamma è la nobildonna Lina Cavagna Sangiuliani, spesso impegnata in diversi eventi mondani, discendente da quel notissimo scrittore che fu Tommaso Grossi, amico di Carlo Porta, sempre al centro della vita culturale milanese.
Il padre è Roberto Pozzi, avvocato, di natura decisamente severa, che vede in Antonia un suo particolare ideale di figlia, nel quale, tuttavia, Antonia non si identifica.
Nel 1930 si iscrive alla Facoltà di Lettere presso l’Università degli Studi di Milano e la sua innata passione per la poesia trova qui un sensibile approfondimento. Incontra nell’ateneo veri maestri che contrassegneranno la cultura italiana del Novecento. Citiamo Antonio Banfi, filosofo, sotto la cui guida scriverà la tesi di laurea in estetica.
Segnaliamo anche Luciano Anceschi, il critico letterario che si schierò a favore dell’Ermetismo, Enzo Paci che introdusse nel nostro Paese l’esistenzialismo, Vittorio Sereni, il poeta entrato a far parte della rivista “Letteratura”. E altri ancora.
Antonia si innamora del suo docente di greco e latino Antonio Maria Cervi e le sue poesie riflettono questo grande amore per una persona più vecchia di quindici anni. Il padre contrasta vivacemente questa relazione, non soltanto per la differenza d’età, ma anche per l’inadeguatezza della sua posizione sociale, certo che non sarebbe in grado di offrire alla figlia l’agiatezza di cui ora gode.
Lei scrive versi splendidi e dolcissimi, dedicati “ad A.M.C.”, che il padre pubblicherà dopo la sua scomparsa, cancellando questa dedica che appariva prima di ogni composizione in versi.
Antonia Pozzi legge molto e continua a studiare, persino alcune lingue europee. Ama anche rinchiudersi nella villa settecentesca dei genitori a Pasturo (località citata dal Manzoni come paese natio di Agnese, la mamma di Lucia ne “I promessi sposi”) ove compone numerose poesie che troviamo ad esempio in “Parole, diario di poesia”, “Poesia mi confesso con te”, “Poesia che mi guardi” e in molte altre, tutte ricolme di schiettezza e permeate della sua personale ricerca della verità.
Nel febbraio del 1938, forse scossa dalle leggi razziali che coinvolgono alcuni suoi cari amici o probabilmente assai rammaricata per la cupa atmosfera politica che in quegli anni di respirava, esce di casa, inforca la bicicletta e si dirige fuori Milano. Giunta presso l’abbazia di Chiaravalle, arresta la sua corsa e ingoia una micidiale dose di barbiturici che risulterà letale. Il giorno prima aveva scritto a Vittorio Sereni “L’età delle parole e’ finita per sempre”. Ai suoi aveva lasciato un semplice messaggio “disperazione mortale”.