venerdì, Aprile 26, 2024
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CONOSCERE E CURARE IL CUORE

di Stefania Bortolotti

All’interno di un processo di medicina personalizzata, c’è un forte bisogno di individuare accuratamente pazienti ad alto rischio. Oggi, l’infiammazione può essere individuata in modo sistemico grazie a markers che misurano l’infiammazione del sangue. Le cellule infiammatorie hanno un ruolo determinante nella crescita delle lesioni aterosclerotiche. La sindrome coronarica acuta tende a manifestarsi in presenza di un’alta concentrazione di markers infiammatori nel sangue, come la proteina C reattiva ad alta sensibilità, la mieloperossidasi neutrofila, la protocalcitonina e i globuli bianchi. Esistono dati assai convincenti che dimostrano un collegamento tra le infezioni acute ed i loro effetti diretti sulle placche aterosclerotiche. Infatti, le persone che muoiono a causa di infezioni acute sistemiche hanno un alto numero di macrofagi e cellule T nel grasso periavventiziale delle coronarie, rispetto alle persone morte, senza infezione. “Grazie alle strategie di imaging intracoronarico ad alta risoluzione”commenta Francesco Prati, Presidente della Fondazione Centro per la Lotta contro l’Infarto – “si è aperta una nuova prospettiva nello sviluppo delle tecniche di caratterizzazione della placca. L’OTC è l’unica tecnica intracoronarica disponibile sul mercato, in grado di individuare le placche mettendo a fuoco lo studio dell’infiammazione. Nel registro CLIMA, si è vista, per la prima volta, una correlazione tra la presenza di macrofagi e un alto rischio di eventi cardiaci nel follow up. Il gruppo dei macrofagi è stato osservato in circa metà dei casi e correlato ad un alto rischio di eventi avversi. L’imaging può rappresentare una nuova frontiera nella diagnosi dell’aterosclerosi con infiammazione. La PET è la tecnica più promettente per individuare e misurare l’infiammazione delle grandi arterie come l’aorta e le carotidi. L’OCT si arricchirà tra poco con una nuova metodica che permetterà di studiare le cellule infiammatorie (macrofagi) delle arterie coronarie del cuore con una precisione ancora maggiore. Si tratta della fluorescenza intravascolare ad infrarossi. Questa è probabilmente la metodica del futuro per studiare a fondo la vulnerabilità della placca e l’infiammazione coronarica. La localizzazione della fluorescenza dalle molecole è anche conosciuta come autofluorescenza ed è più vicina all’applicazione clinica perché può essere rivelata senza la somministrazione di agenti esogeni, non ancora approvati per uso umano. La sonda dell’OTC autofluorescente è stata testata sulle placche umane dal vivo per identificare e visualizzare elastina, collagene e accumulazione dei macrofagi. In questo scenario, l’OTC è la modalità di imaging intracoronarico che può essere in grado di identificare le placche vulnerabili che manifestino anche locali aggregazioni di cellule infiammatorie”.

Oggi numerose evidenze osservazionali indicano come l’influenza possa essere associata all’infarto miocardico acuto. Il razionale fisiopatologico è rappresentato dal rilascio di citochine infiammatorie, rottura di placche aterosclerotiche e innesco di fenomeni pro-trombotici che possono esitare nell’occlusione di un’arteria coronaria. Numerose evidenze osservazionali indicano inoltre un potenziale ruolo del vaccino influenzale nella prevenzione cardiovascolare. Si stima che l’efficacia del vaccino influenzale nella prevenzione da infarto miocardico acuto vada dal 15 al 45%. Diversi studi hanno evidenziato l’esistenza di un’associazione tra infezioni respiratorie e lo sviluppo di infarto miocardico acuto. Essi evidenziavano un rischio di IMA significativamente maggiore durante i primi 3 giorni dall’infezione respiratoria acuta, con un rapporto di incidenza di 4.19 e progressiva riduzione del rischio nel corso del tempo. Il New England Journal of Medicine, a gennaio del 2018, ha valutato l’associazione tra infezione influenzale confermata laboratoristicamente con metodi altamente specifici e ospedalizzazione per IMA. I ricercatori hanno evidenziato che l’incidenza di ammissione per infarto miocardico acuto era sei volte più alta nei primi 7 giorni dalla conferma laboratoristica dell’infezione influenzale rispetto all’intervallo di controllo, e nessun aumento di incidenza era osservato dopo il settimo giorno. L’influenza può essere chiaramente relata all’infarto miocardico di tipo 2 per tachicardia, febbre, ipossia e variazioni del tono vasale. È stato tuttavia ipotizzato come l’influenza attraverso plurimi meccanismi possa indurre o facilitare i fenomeni occlusivi su placche aterosclerotiche subcritiche preesistenti. In seguito al rilascio di citochine infiammatorie, la sindrome influenzale può favorire l’innesco di uno stato protrombotico. Tutti questi fattori contemporaneamente sono responsabili di un aumentato stress biomeccanico su placche coronariche aterosclerotiche preesistenti che ne facilitano la rottura. L’infezione influenzale, oltre ad indurre una risposta infiammatoria sistemica, sembrerebbe avere un effetto infiammatorio diretto sulla placca aterosclerotica e sulle arterie coronarie.

Alcune recenti pubblicazioni, relative all’effetto dei grassi e dei carboidrati alimentari sul rischio cardiovascolare e sulla mortalità per tutte le cause, hanno dato inizio, sia sui media sia nella letteratura scientifica, ad un dibattito piuttosto intenso. Ad innescarlo sono stati soprattutto i dati ottenuti nello studio PURE (Prospective Urban Rural Epidemiology), un grande studio osservazionale, disegnato con l’obiettivo di raccogliere informazioni sulla relazione tra stili di vita, alimentazione e rischio cardiovascolare anche nei Paesi con un reddito pro capite basso o intermedio, arruolando soggetti residenti in ambiti sia rurali sia cittadini, coordinato dal gruppo canadese di Salim Yusuf alla McMaster University. I risultati dello studio possono essere così sintetizzati: la mortalità (sia totale e sia per eventi cardiovascolari) diminuisce con il crescere dell’apporto calorico da grassi totali, e non è sostanzialmente influenzata dall’apporto di grassi saturi, nemmeno quando questo è molto elevato; con il crescere dell’apporto di grassi mono- e poli-insaturi la mortalità tende invece a ridursi. Se le calorie da carboidrati eccedono il 60% circa dell’apporto calorico, per converso, la mortalità totale inizia a salire, muovendosi in parallelo a quella per eventi cardiovascolari.

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