A cura di Sergio Colombo
Silvano Barberi: consegue la laurea in ingegneria nel 1982.
Terminata la leva, dal 1983 al 1988 lavora nel privato nel settore della bioenergia e depurazione.
Nel 1988 entra nel Corpo dei Vigili del Fuoco e presta servizio, in qualità di Funzionario direttivo a Bologna e successivamente a Venezia, come vicecomandante.
Dal 2001 al 2003 è Comandante a Lecco.
Dal 2003 al 2009 è Comandante a Treviso.
Dopo un anno, trascorso al Ministero (2009-2010), assume il Comando di Milano (2010-2016).
Dal 2017 al 2018 è Direttore regionale dei Vigili del Fuoco dell’Emilia-Romagna.
Alla fine del 2018 torna a Roma come Direttore centrale delle risorse tecnico-logistiche. .
Da fine 2021 è Direttore regionale dei Vigili del Fuoco della Toscana, dove chiude la carriera a fine 2022.
Alla fine del 2022, l’ing. Silvano Barberi, alto funzionario dei Vigili del Fuoco, arrivato al termine della carriera, è tornato alla vita privata.
Per chi non lo conoscesse, giova ricordare, soprattutto ai milanesi, che il comandante Barberi ha diretto il Comando di Milano durante l’EXPO 2015 e, successivamente, ha gestito le operazioni di soccorso dopo il crollo del Ponte Morandi a Genova.
Durante la sua carriera ha accumulato un prezioso patrimonio di esperienze ricoprendo, nel Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, vari incarichi, progressivamente apicali.
Ho conosciuto l’ing. Barberi quando si è insediato nel Comando di Milano e ho apprezzato la sua personalità di alto profilo tecnico e professionale, capace di capire i problemi, analizzarli e risolverli con grande pratica, ancorché sempre nel rigoroso rispetto delle norme e delle procedure.
Un’attività esemplare per garantire la sicurezza nella sostanza, più che nella forma, ma senza sconti.
Ci sembra importante quindi raccogliere i frutti più sostanziosi di questa esperienza che cercheremo di acquisire con questa intervista.
La prevenzione incendi è un settore vastissimo: le attività soggette al controllo dei Vigili del Fuoco sono ben 80: dalle industrie chimiche agli ospedali, dagli alberghi ai condominii, dai supermercati agli stabilimenti più complessi, dalle scuole ai reattori nucleari; se ne citano solo alcuni: tra i più semplici e i più impegnativi, per dare un’idea di cosa stiamo parlando.
D. Le norme di prevenzione incendi sono in continua evoluzione. Quali sono stati i momenti della svolta? Con quali conseguenze pratiche?
Certamente l’adozione del cosiddetto “codice” di prevenzione incendi e l’introduzione delle nuove procedure hanno modificato sostanzialmente l’approccio alla sicurezza antincendio, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra Amministrazione, Titolari delle attività e Professionisti.
E’ un percorso lungo ma continuo, che ha mosso i primi passi con il DPR 577 del 1982 e che è in prospettiva di ulteriori importanti modificazioni che, in qualche modo, chiuderanno il cerchio di questa evoluzione.
Ricordiamo, sinteticamente, che la sicurezza antincendi ha progressivamente percorso una strada di coerenza: in una prima fase si è avuto un forte dualismo nell’approccio, mera applicazione di codici per le cosiddette attività normate e totale assenza di indicazioni per l’applicazione dei “criteri generali” di prevenzione e protezione per le attività non normate, la maggioranza di quelle soggette. I progetti in tale secondo caso venivano “concordati” in un confronto tecnico presso i Comandi VV.F. e da questi approvati, con il “vantaggio” di spostare sull’Amministrazione la responsabilità delle scelte ed il “rischio” della disuniformità di visione tra realtà territoriali ed anche all’interno di esse.
La seconda fase ha cercato di eliminare la soggettività con l’obiettivo di “normare tutto”, ne è scaturita una grande produzione di norme verticali che, seppure formulate in tempi successivi, hanno riproposto approcci, soluzioni e valori dimensionali nati tra gli anni ’50 e gli anni ’80 del secolo scorso. Ne è derivato un ingessatura dell’attività professionale, progressivamente orientata alla certificazione attraverso il meccanismo della abilitazione, i famosi “elenchi” della L. 818 del 1984.
Intendiamoci, tanto la prima quanto la seconda fase non devono essere viste come un lungo periodo buio della sicurezza antincendi che, anzi, è progressivamente cresciuta nella consapevolezza del mondo professionale, produttivo ed anche civile, grazie ad un rapporto qualificato e leale tra Professionisti ed Amministrazione e ad una imponente attività di formazione e di confronto anche interprofessionale.
L’idea che il progetto antincendio possa e debba essere il risultato di una attività professionale “guidata” ha portato alla stesura del “codice” ed a trasformare definitivamente l’attività del Professionista dalla proposta alla asseverazione.
E’ un cambiamento di passo che, ripeto, sta per essere concluso.
Cosa cambia nella pratica? Molto, moltissimo. Piaccia o no. Il Professionista cresce nel ruolo e nella responsabilità, il confronto sul singolo progetto si affievolisce (ma si mantiene il dialogo tra Amministrazione e categorie professionali), il controllo assume più decisamente il carattere ispettivo, come in altri settori avviene già da tempo.
D. Per scrivere i decreti si creano tavoli di lavoro allargati alle associazioni di categoria dei vari settori?
Già da 40 anni, con la istituzione del Comitato centrale tecnico-scientifico, la disciplina della prevenzione incendi è il risultato di un confronto su un tavolo in cui, a guardar bene, i vigili del fuoco sono in minoranza. Basta scorrere l’elenco dei componenti per capire quanto ampio sia il contributo da parte dei cosiddetti portatori di interessi. Ciò dimostra quanto sia stata chiara, da lungo tempo, la consapevolezza che gli obiettivi di sicurezza rappresentino un punto di incontro tra visioni ed esigenze diverse. Questo spiega in certi casi le ragioni delle scelte, dei tempi, delle proroghe e così via.
D. Secondo Lei si potrebbero migliorare le modalità con cui si scrivono le norme antincendio? Se sì, come?
E’ una domanda per un verso ovvia e per un altro insidiosa. Tutto è migliorabile, per definizione. Tuttavia, fino ad ora, in particolare nella preparazione del codice, si è cercato di dare alla luce un prodotto della massima qualità, utilizzando le migliori risorse ed esperienze disponibili nel panorama nazionale ed internazionale ed operando il confronto tecnico nel modo più ampio possibile, pur rispettando la volontà di approdare ad un risultato concreto in tempi ragionevoli. A mio avviso, però, il problema non è nello scrivere le norme, è in ciò che si vuole da esse. Ma qui ci spostiamo su un altro terreno…
D. Si potrebbe ipotizzare, se già non esistesse, un tavolo di lavoro permanente su specifici settori di prevenzione incendi?
Per quanto ho detto, il Comitato centrale tecnico-scientifico è la sede permanente, istituzionale e propria nella quale affrontare ogni problematica di carattere tecnico e normativo in materia di scurezza antincendi. La Direzione centrale per la prevenzione e la sicurezza tecnica, presso la quale siede, con i suoi settori ed i suoi laboratori è permanentemente aperta all’approfondimento ed anche allo studio di problematiche emergenti, basti pensare alle facciate, all’idrogeno, agli accumulatori elettrici.
D. Le è mai capitato di imbattersi in norme sbagliate o talmente rigorose da risultare in pratica inapplicabili?
Sì, certo, è la principale accusa mossa all’approccio prescrittivo delle cosiddette norme verticali. Il problema non sta tanto nel principio che si cerca di trasferire nella norma, ma nel fatto che una norma pensata su una attività-tipo non potrà mai essere adatta per tutte le situazioni che ne prevedono l’applicazione. Ne consegue che in certi casi l’obbligo prevale sulla valutazione tecnica ed il Professionista attua misure obiettivamente prive di risultato o, quando non ci riesce, ricorre all’istituto della deroga proponendo, magari, misure compensative altrettanto insignificanti. Ecco, l’approccio del codice mira ad eliminare tali situazioni. Non dico che ci sia riuscito appieno, ma certamente ha cambiato di molto le cose.
D. In base alla Sua esperienza quali aspetti relativi alla prevenzione presentano margini di miglioramento?
E’ un quesito delicato, che si presta ad approcci differenti. Mi limiterò a dare due spunti. Sul piano tecnico-normativo, la sicurezza nei condomini dovrebbe essere rivista con un’ottica “aziendale”, i numerosi casi anche gravi e gravissimi dimostrano una carenza di impostazione, di organizzazione, di impianti, talora di struttura. Le pare coerente che in un ufficio di trenta persone, che operano in stato di vigilanza, vi sia un piano di emergenza, si prescrivano impianti di rilevazione e di allarme e si svolgano periodiche prove di evacuazione, mentre in un condominio di cento unità abitative, con occupanti in tutte le condizioni immaginabili, impianti di riscaldamento e cottura a gas ed apparecchi di ogni tipo, non vi sia la minima predisposizione per prevenire, informare, proteggere se non la conformità originaria degli impianti e, solo per i fabbricati più recenti, la protezione passiva delle scale? Ci rendiamo conto di cosa comporta, come conseguenza, l’incendio anche di una sola unità all’interno di un condominio? L’altro aspetto, non disgiunto dal primo, riguarda l’approccio al cosiddetto “adeguamento” delle attività realizzate in tempi diversi, quando concetti oggi correnti, come la conformità, la qualità, la standardizzazione, la certificazione non erano maturi e diffusi come oggi. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che la regola dell’arte è nata prima delle circolari ministeriali e che in ogni tempo le costruzioni e gli impianti sono stati costruiti seguendo criteri di sicurezza e di buona qualità, in relazione all’epoca di realizzazione. L’idea di “riqualificare” una realtà costruttiva pensando di riportare all’attuale il livello di sicurezza mediante interventi parziali di aggiornamento presenta nella pratica le difficoltà e le contraddizioni che vediamo ogni giorno. Facciamo un paragone con il settore automobilistico: certamente un veicolo di trent’anni che circola avrà caratteristiche di sicurezza diverse da quelle di uno nuovo, pensiamo ad esempio ai sistemi di controllo della frenata, della traiettoria e della velocità, eppure nessuno penserebbe di adeguare l’impianto frenante o gli apparati di guida, che dovranno essere semplicemente mantenuti efficienti e conformi alle caratteristiche originarie. Certamente il gommista, all’atto della sostituzione, monterà oggi pneumatici adeguati agli standard attuali ed il meccanico componenti d’usura più moderni, ma la vettura rimarrà sostanzialmente così come è nata. Ecco allora che, se non vogliamo rinunciare alla ricerca di un “buon” livello di sicurezza, dobbiamo prendere atto della realtà ed intervenire sull’unico fattore di compensazione possibile: il conducente, che innanzitutto deve essere consapevole di stare alla guida di un veicolo non appena uscito dalla fabbrica o dal concessionario e di conseguenza deve adattare la sua condotta, quanto a velocità, distanze e così via. Tornando all’esempio del condominio, l’approccio attuale all’adeguamento vedrà magari installare porte tagliafuoco nell’autorimessa per proteggere una cantinola o il locale dei contatori, installare contropareti in cartongesso per poter avere una certificazione, smussare un angolo per recuperare il deficit di due centimetri su un passaggio ed i condomini si sentiranno sollevati perché saranno stati informati dall’Amministratore che il fascicolo è stato aggiornato con la presentazione della SCIA, sanando così l’errore di aver lasciato scadere il vecchio CPI. In compenso, il palazzo continuerà ad avere la sua unica scala aperta, con porte di accesso alle unità in legno leggero o al più qualche portoncino blindato, privo di caratteristiche di tenuta dei gas di combustione, i condomini continueranno a non avere alcuna consapevolezza dei rischi presenti nel fabbricato ed alcuna informazione sul da farsi in caso di un evento di emergenza. Emergenza della quale, si intende, dovranno accorgersi spontaneamente o, se saranno fortunati, perché qualcuno busserà alla porta o suonerà il campanello. La mia impressione è che il principio della “valutazione del rischio“ introdotto alla fine dello scorso millennio dalla disciplina sulla sicurezza del lavoro potrebbe avere applicazioni efficacissime proprio nel campo della civile abitazione. Intendiamoci, sto parlando di un approccio serio e “ingegneristico”, non di nuove formalità e di documenti preconfezionati da firmare e custodire nei cassetti…
D. Autorimesse costruite negli anni ’50-’60-’70 con comunicazioni dirette (mediante filtri) con le scale degli edifici soprastanti. Dette comunicazioni sono quasi sempre vie di fuga dall’autorimessa per cui le porte devono essere apribili a semplice spinta: situazione idonea per la prevenzione incendi ma assolutamente nefasta per l’antintrusione. Conclusione: le porte vengono quasi sempre chiuse a chiave, a danno della prevenzione incendi. In tali situazioni Safety and Security sono quindi in pieno contrasto tra loro e non risulta che vi siano dispositivi antintrusione omologati dal competente Ministero da inserire sulle porte delle vie di fuga. È un problema che riguarda migliaia di condominii nella sola Milano. È possibile ipotizzare una soluzione?
Come ha ben detto, è un classico conflitto tra safety e security. Potremmo chiederci se è preferibile il rischio, anche piuttosto remoto, di trovarsi bloccati in una autorimessa piena di fumo o quello – più probabile? – di trovare qualche persona indesiderata sulle scale di casa. Io avrei una risposta, sarà di parte, ma forse non sarei il solo. La questione è stata affrontata più volte, proprio a Milano, attraverso procedure di deroga che solo in pochi casi sono state ritenute convincenti. Come abbiamo già detto, il principio generale è che chi deve scappare non possa fermarsi a cercare chiavi, digitare codici e così via, è un principio condivisibile. E’ anche vero che chi è esperto dei luoghi è agevolato, ma possiamo essere certi che la reazione emotiva non giochi brutti scherzi? Il mio parere è che gli accrocchi non siano una buona soluzione. Se la comunicazione con le scale è via di fuga, deve essere percorribile fino a luogo sicuro, se non è via di fuga può avere la serratura, dipende dalla conformazione dei luoghi. Se è via di fuga, la protezione dalle intrusioni va ricercata attraverso altri strumenti, ad esempio sull’ingresso dell’autorimessa, sull’accesso alle scale, con telecamere, avvisatori, porte delle abitazioni, …
D. Se Le chiedessero di dare suggerimenti alle nuove leve degli ufficiali dei Vigili del Fuoco, quali sarebbero i suoi consigli?
Un Funzionario che decide di entrare nel Corpo, quale che ne sia la volontà o l’occasione, comprende in breve tempo che la posta in gioco è alta. Il ruolo può essere esercitato in più modi, ma “il bello” è che il massimo della utilità pubblica di questo lavoro coincide anche con il massimo della soddisfazione personale. E per far questo – mi sia perdonata l’affermazione “tautologica” – il compito non può essere affrontato in modo tiepido, ma decisamente caldo. Va trovato un equilibrio fra tre dimensioni, quella dei rapporti interni, con il personale ed il soccorso, quella dei rapporti esterni con i professionisti ed il pubblico, quella della crescita professionale, fatta di esperienze, di aggiornamento, di approfondimento, di confronto leale. Purtroppo bisognerà accettare il fatto che le esperienze più forti saranno riferite ad eventi gravi, ma ci sono spazi importanti anche in progetti di sperimentazione, esercitazione, formazione ed anche celebrazione. Parlando più strettamente dell’attività tecnica, il discorso si fa ancora più delicato, perché il mandato è chiaro e non può essere aggirato, al Corpo è affidata l’”incolumità antincendio” dei cittadini, dalla prevenzione al soccorso, ma tutti sappiamo che la vera sicurezza è nella prevenzione. Lo Stato, come istituzione ma anche come collettività, affida questo compito alle attività di controllo delegate ai Funzionari del Corpo. Gestire in modo sostanziale e corretto il rapporto tra la valutazione tecnica e la funzione istituzionale, fatta di codici, di norme e di responsabilità, è la scommessa che impegna ciascuno. A carriera conclusa, carriera fantastica che mi ha colmato di impegni e di soddisfazioni, riservandomi sicuramente anche una dose di buona sorte, posso affermare che il detto di un vecchio collega sommozzatore “male non fare, paura non avere” si è rivelato vincente.
D. Norme a parte, secondo Lei il Corpo dei Vigili del Fuoco è dotato dei mezzi più idonei ed efficaci per combattere le varie categorie di incendi?
No, perché per alcune tipologie e caratteristiche di incendi servirebbero mezzi che sono ancora nella fantasia. Di fronte alla molteplicità degli scenari che si verificano e che si possono prevedere dobbiamo riconoscere che ci sono aree in cui gli strumenti resi disponibili dalla tecnologia sono sproporzionati rispetto alla dimensione ed alle caratteristiche degli eventi. Però posso affermare che il Corpo è dotato di tutte le tipologie di mezzi che l’industria rende disponibili oggi nel mercato internazionale e che tali mezzi sono distribuiti nel territorio in modo da risolvere tempestivamente ed efficacemente quel milione scarso di situazioni “ordinarie” che ogni anno richiedono il suo intervento. Allo stesso modo, il meccanismo di mobilitazione territoriale e nazionale consente di far convergere risorse laddove eventi straordinari non possono essere risolti con le sole forze locali. Quanto ai numeri ed alle condizioni del parco veicoli, l’aggiornamento tecnologico è legato agli avvicendamenti ed ai potenziamenti, a loro volta legati agli stanziamenti. E’ la solita questione di equilibrio tra desideri e disponibilità.
D. In base alle condizioni di fatto (uomini e mezzi) cosa dovrebbe fare di più lo Stato, per potenziare le risorse del Corpo, sia nell’ambito della prevenzione sia in quello dei soccorsi?
La risposta più semplice e scontata è: aumentare i finanziamenti. Tuttavia, non condivido appieno tale affermazione e cercherò in breve di spiegare questo parziale dissenso. Già in questi ultimi anni, infatti, possiamo dire che i livelli di finanziamento sono stati fortemente accresciuti, con la definizione di piani pluriennali di investimento in grado di sostenere importanti programmi di acquisto di beni strumentali. Inoltre, il PNRR ha dato oggi un’altra spinta epocale per un ammodernamento tecnologico del Corpo. Se ancora, per ipotesi, immaginassimo di avere a disposizione risorse illimitate, si renderebbero ancora più evidenti i limiti strutturali di una Organizzazione pubblica – che non a caso si chiama Corpo – chiamata a fornire ogni giorno risposte immediate ed efficienti ai vecchi ed agli emergenti rischi, partendo dalla prevenzione ed arrivando fino al soccorso. Quando si parla di struttura ci si riferisce comunemente agli organici di personale, elemento che anche per il Corpo è rilevante e grave, soprattutto nei ruoli di responsabilità e nelle competenze specialistiche. Ma sul Corpo dei vigili del fuoco pesano anche aspetti di struttura organizzativa più profonda. Chiaramente non è questa la sede che consenta di analizzare nel dettaglio le problematiche, pertanto vorrei sintetizzare la risposta cosi: per poter migliorare la qualità dei servizi resi dal Corpo, lo Stato dovrebbe metterlo nelle condizioni di allungare il proprio sguardo, di poter progettare e programmare oggi il proprio futuro, selezionare, formare, valorizzare persone in grado di comprendere l’evoluzione delle esigenze sociali e delle soluzioni tecnologiche, per mettere a punto strategie e piani capaci di affrontare i nuovi rischi. In altri termini, di esercitare davvero e nel profondo, dallo studio al cantiere, quella funzione ingegneristica ed organizzativa che lo caratterizza.
D. Le risulta che la burocrazia sia frequentemente un ostacolo all’adozione di provvedimenti migliorativi? Le è capitato che essa abbia bloccato iniziative che avrebbe voluto vedere realizzate con il Suo contributo?
Cerchiamo di capirci sui termini, parliamo della burocrazia come di una forma eccessiva e pedante, deviata, dell’amministrazione, che pare dissociarsi dalla propria funzione solo per dimostrare il proprio potere. E’ l’espressione estrema, certamente esiste, quanto frequentemente non saprei dire, talora sono proprio gli oppositori dei progetti che la vanno a cercare come alleata. Poi c’è l’insieme delle regole, delle norme e delle procedure, cui spesso mettiamo l’etichetta dispregiativa di burocrazia, che però contengono tutti gli obiettivi di garanzia, di legalità, di trasparenza, di concorrenza, di tutela che proprio il cittadino richiede al Legislatore. Le regole degli appalti ne sono un esempio chiaro, da un lato chiediamo celerità e snellezza, dall’altro pretendiamo garanzie, compresa quella di poter eccepire e ricorrere ogni volta che ne vediamo la necessità o anche solo la convenienza. Potremo dire, senza necessità di commenti ed esempi, che la complicazione delle procedure è inversamente proporzionale alla fiducia concessa al cittadino-utente. Detto questo, posso affermare che in molte occasioni le procedure hanno rallentato anche sensibilmente, rispetto alle mie attese, la realizzazione di mie iniziative, penso in particolare agli appalti. Non ricordo, invece, casi in cui la burocrazia vera e propria abbia definitivamente bloccato un progetto.
D. Quali sono stati, per Lei e il Suo Comando, i momenti più impegnativi in preparazione e nel corso dell’EXPO?
L’esperienza di Expo 2015 è stata una lunga fatica, una avventura affascinante. C’era in ballo un evento planetario, su temi vitali per l’umanità, quali il cibo, l’acqua, l’energia, una scommessa per l’orgoglio nazionale, tutto ciò in un momento delicatissimo in cui il rischio di eventi ed atti volontari era ben sentito. Quindi una stagione iniziata per tempo, a velocità crescente, fino alla fibrillazione della vigilia e del semestre espositivo. E’ stato fatto un potenziamento di conoscenze, di addestramento, di sorveglianza, di dotazioni strumentali, l’organizzazione è stata preparata ad uno sforzo eccezionale e lo ha compiuto. Se, però, cerco in quel periodo qualche criticità, non la trovo. Si è detto che tutta l’operazione sia stata un successo e lo condivido, sapendo anche quale sia stata l’arma vincente: la coesione delle Istituzioni, una regia tecnica ed amministrativa obiettivamente all’altezza del compito, una Città consapevole.
D. Quali provvedimenti più difficili ha dovuto affrontare dopo il crollo del Ponte Morandi?
Spero che la mia risposta non venga fraintesa, non voglio sottovalutare la gravità dell’evento né osannare l’attività del Corpo. E’ stata un’emergenza con una fase acuta di 100 ore e una fase successiva di diversi mesi, nella quale il Corpo ha messo in campo tutte le proprie energie professionali per il soccorso, la valutazione e l’assistenza. Io mi sono occupato della prima fase, terminata con il ritrovamento delle ultime vittime e la messa in sicurezza dello scenario. Un’apnea di 100 ore nelle quali la macchina del Corpo ha funzionato ininterrottamente a pieno regime, senza cali di potenza e senza fuorigiri. Tutte le competenze specialistiche e tutta l’esperienza organizzativa sono state messe a frutto con una buona precisione e soprattutto un efficace coordinamento. La popolazione è stata straordinaria e ci ha sostenuto con un affetto incredibile, l’apparato di protezione civile è stato puntuale e determinante, il personale ha capito ed ha agito, il Governo e le Istituzioni, fino ai vertici, sono stati al nostro fianco. Quindi i provvedimenti sono stati in linea con la necessità di garantire la sicurezza ed il risultato, con una valutazione costante della situazione e la pianificazione delle fasi successive, affinché le risorse fossero sempre disponibili ed adeguate.
D. Ci sono episodi particolarmente significativi che sono rimasti indelebili nella Sua memoria?
Rabbrividisco all’idea di poter compiere un percorso di una vita nel Corpo senza accumulare ricordi indelebili. Ne ho decine, centinaia, che porto con me come un bagaglio privilegiato anche se molti sono “pesanti”. E’ facile pensare che tali ricordi siano legati a grandi emergenze che inevitabilmente hanno incrociato la mia carriera, dalla Fenice di Venezia al Ponte Morandi di Genova, passando per una serie di incendi, esplosioni, incidenti stradali ed industriali, calamità. Ma molti episodi altrettanto incancellabili sono legati a situazioni più sommesse o addirittura nascoste. Sono emozioni che rivivono ogni volta. Penso in questo momento a quella notte nel campo profughi di Kukes in Albania, dove mi trovavo con la Missione Arcobaleno della protezione civile italiana, quando una donna fuggita dal Kosovo ha dato alla luce una bambina, che è stata chiamata Libertà. Penso a quando ho voluto incontrare la famiglia di un uomo deceduto in una collisione con una nostra autopompa. Penso al momento in cui i miei Vertici mi hanno chiamato nel loro ufficio, per comunicarmi che ero il nuovo Comandante di Milano.
D. Al termine della Sua carriera c’è qualche aspetto che avrebbe fortemente desiderato di vedere realizzato e che non lo è stato?
Sì certo, eccome. Uno in particolare. Ma non lo dirò, perché dovrei spiegarlo e non è il caso di annoiare il lettore con disquisizioni che, da osservatore esterno, probabilmente non sarebbe interessato a comprendere. Del resto, sono consapevole di aver visto realizzarsi così tanti sogni che qualche incompiuto è d’obbligo. In fondo, come avviene per le persone che amiamo, dobbiamo apprezzare le buone qualità ed anche accettare i limiti.
D. Per favore dia una risposta a una domanda che non Le ho fatto.
Non mi ha chiesto se, rinascendo, farei ancora l’ingegnere nei vigili del fuoco e se, ora che ho cessato, non mi sento svuotato, privo di scopo, un nessuno. La prima risposta è: decisamente sì, ho lasciato un lavoro interessante come la bioenergia per seguire questa passione e non me ne sono mai pentito. Forse mia moglie non condivide appieno, ma mi ha conosciuto a Venezia quando ero già nel Corpo e poi mi ha accompagnato nel mio percorso, condividendo anche le inevitabili difficoltà. E’ stato importante, non credo sia stata del tutto sincera quando diceva che avrebbe preferito un ingegnere-bancario. La seconda risposta è: decisamente no, sono consapevole di avere avuto una carriera come poche, cui ho dato il massimo delle energie, del tempo e dell’attenzione, sottraendoli spesso ad una giusta dimensione personale e familiare. Sono giunto al termine di una lunga meravigliosa partita in cui ho cercato di aiutare le persone e migliorare l’Organizzazione, ce l’ho messa tutta. Ho doveri ed interessi accantonati che meritano ora, serenamente, un po’ di spazio, sapendo che lo spirito non è cambiato, né verso le persone, né verso l’ingegneria, né verso il Corpo.