Il film della regista tunisina Kaouther Ben Hania “L’uomo che vendette la sua pelle”, che sarà nelle sale il 7 ottobre, può apparire surreale, grottesco in alcune scene, ma non lascia assolutamente indifferenti. Fa riflettere, proprio perché riesce a mettere in evidenza certi paradossi del nostro mondo occidentale: l’arte che cerca di superare ogni limite, mentale e materiale, e un uomo che, costretto ad andarsene dalla Siria per sfuggire al conflitto, è obbligato a diventare egli stesso un’opera d’arte, quindi una merce di pregio, per poterlo fare.
Sam Alì, questo il nome del protagonista, infatti si lascia tatuare sulla schiena un visto di Schengen da un estroso artista che, a lavoro compiuto, lo tratta come un’opera d’arte. Ma non si può certo lamentare: vive nel lusso, in un hotel a cinque stelle, ma non è libero. E’ esposto nelle mostre e non può ribellarsi. Quando gli nasce un brufolo sulla schiena, l’esposizione viene sospesa per consentire il “restauro” dell’opera.
Sam, o meglio l’opera che sta sulla sua schiena, viene poi acquistata da un eccentrico miliardario ma non regge molto questo ruolo. E in una seduta d’asta successiva, nella quale viene aggiudicata per 5 milioni di euro, finge di impazzire e si fa arrestare. Tornerà nella sua terra per ricongiungersi con la donna che ama ma finirà “giustiziato” dai terroristi. La pelle della sua schiena, debitamente recuperata, verrà esposta in un museo dentro una cornice.
E’ una riflessione quella di Kaouther Ben Hania sulla libertà, sulla disuguaglianza. Sam a un certo punto dice all’artista “sei nato dalla parte giusta del mondo”. Il contrasto tra privilegiati e dannati emerge con forza. Sam, in realtà, non vende all’artista solo la sua schiena ma anche la sua anima. E’ così che Sam perde anche la sua dignità e la falsa libertà che crede di aver conquistato in Europa è una pura illusione.
Ma, nello stesso tempo, anche la libertà dell’occidente forse è illusoria quanto quella di Sam. Il mondo è cinico, dice infatti a un certo punto, un personaggio del film. E l’artista, che forse è il personaggio più cinico di tutti, aggiunge: “E’ terribile accorgersi di essere parte di un sistema. Ma è ancora più terribile sapere di essere ignorato dal sistema”. In altri termini, ciò significa che quando sei dentro al gioco, non puoi fare a meno di giocare e se giochi, non lo fai per partecipare, ma devi vincere…
In questa prospettiva, ci si rende conto drammaticamente che nella nostra società vale più un’opera d’arte, cioè la realizzazione della creatività di un uomo, per quanto artista eccelso, che l’uomo stesso, come persona fisica. E’ lo stesso stridore che proviamo di fronte alla reazione indignata della gente per le distruzioni dei templi di Budda da parte dei talebani, e l’indifferenza quasi assoluta per le migliaia di morti della guerra. Insomma, la nostra è una società che sembra sempre più orientata a diventare iconolatra e forse per questo sempre più disumana.
Il film è davvero denso di stimoli e anche ricco di atmosfere diverse, sottolineate da scelte musicali molto adeguate. Lo si vede con piacere perché la mano della regista è comunque ferma, segue la traccia narrativa in modo lineare, razionale, e sa dosare momenti diversi: tragedia, dramma, satira, umorismo, in modo da far sembrare la vicenda verosimile anche se totalmente immersa nella paradossalità.
Ottima l’interpretazione di Yahya Mahayni, nel ruolo di Sam, che gli è valso il premio alla 77° mostra internazionale d’Arte di Venezia nel 2020 come Miglior Attore. Nel film c’è anche un cameo di Monica Bellucci, segretaria/amante dell’estroso artista tatuatore.