venerdì, Aprile 26, 2024
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Un tweet per il cuore: #abbattoilcolesterolo

Stefania Bortolotti
Agli italiani fa più paura l’idea di avere il primo infarto che la concreta possibilità di averne un secondo. È la malattia dei paradossi. Diminuiscono le morti in ospedale ma aumentano quelle ad un anno dalla dimissione, perché spesso i pazienti interrompono le terapie anche a causa degli effetti collaterali.

Lo studio IMPROVE-IT dimostra quanto sia importante abbattere i livelli di LDL, ma i pazienti ritengono il colesterolo, anche quello cattivo, un fattore di rischio di poca importanza. Sì, perché non basta abbassare l’LDL bisogna addirittura abbatterlo. Soprattutto dopo un infarto. Ormai non ci sono più dubbi: il livello di LDL dopo una sindrome coronarica acuta deve scendere sotto la soglia di sicurezza di 70mg/dL, e di molto. Perché più basso è, meglio è. Un obiettivo possibile grazie alla terapia con ezetimibe/simvastatina che sfrutta la doppia inibizione, a patto che i pazienti siano ‘diligenti’. Cosa non scontata.
colesterolo_abbattoPerché aumentano i decessi a un anno dall’evento cardiovascolare? Come migliorare la comunicazione medico-paziente? Come favorire l’aderenza terapeutica? A questi e a molti altri interrogativi sono stati al centro di una conferenza stampa a Roma, dove con l’aiuto degli esperti si è fatto il punto della terapia al colesterolo LDL nei pazienti con sindrome coronarica acuta alla luce dei risultati dello Studio IMPROVE-IT che sono stati presentati per la prima volta nel Novembre del 2014 durante il Congresso dell’American Heart Association.
In Italia tra il 2001 e il 2011 la mortalità intraospedaliera dell’infarto si è progressivamente ridotta dall’11.3% al 9% mentre le nuove ospedalizzazioni fatali dalla dimissione a 60 giorni sono aumentate dello 0,13% e quelle dalla dimissione a 1 anno dello 0.53%. Un andamento ancora più evidente nel pazienti con scompenso cardiaco con una mortalità tra la dimissione e il primo anno pari al 10% . Viene da chiedersi se il paziente italiano segua un percorso post ospedaliero sufficientemente virtuoso. «Nel nostro Paese – spiega Michele Massimo Gulizia, Presidente Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri – ANMCO e Direttore Struttura Complessa di Cardiologia, Ospedale Garibaldi-Nesima di Catania – un paziente segue un percorso assistenziale abbastanza virtuoso e completo. Un percorso con luci e ombre. Un tallone d’Achille è sicuramente rappresentato dall’integrazione tra Ospedale e Territorio. Una volta dimesso dall’Ospedale, con la prescrizione terapeutica e qualche raccomandazione su come cambiare gli stili di vita, il paziente a casa si trova da solo e spesso non riesce a restare ben aderente agli obiettivi di salute e di stile di vita raccomandati, non allontanando quindi adeguatamente i fattori di rischio che sono stati causa dell’infarto o, ancor peggio, non seguendo correttamente la terapia assegnata. Oggi sappiamo quale strada percorrere; abbiamo appreso cioè con ragionevole certezza che alla correzione degli stili di vita e all’aderenza alla terapia dobbiamo affiancare strumenti farmacologici in grado di abbattere la soglia di LDL. Possiamo affermare con certezza che non solo dobbiamo abbassare la soglia del colesterolo LDL, ma addirittura dobbiamo abbatterla sotto il limite di sicurezza di 70 mg/dL. Proprio questa strategia, grazie all’utilizzo di Ezetimibe in associazione a Simvastatina, nello studio IMPROVE-IT ha ridotto del 13% gli infarti miocardici acuti, del 21% gli ictus cerebrali e del 6,4% gli eventi cardiovascolari in genere. È un beneficio di gran lunga più ampio di quello che si può ottenere con qualsiasi altra strategia e senza avere quegli effetti indesiderati che si avrebbero con l’utilizzo di statine ad alti dosaggi. E senza indossare il paraocchi economico: nel nostro Paese dopo una sindrome coronarica acuta l’85% del costo complessivo è da attribuire alle nuove ospedalizzazioni e solo l’11% alla spesa farmaceutica e il 4% all’assistenza specialistica. La popolazione dimessa dopo una sindrome coronarica acuta non deve rappresentare un gruppo su cui esercitare strategie di risparmio sul costo dei farmaci: per il rischio clinico elevato, per l’elevato numero di nuovi ricoveri e l’insoddisfacente aderenza/intolleranza alla terapia che, come circolo vizioso, determina nuovi ricoveri».
colesterol-hdl-ldlSopravvivere a un evento cardiovascolare è già di per sé un evento. Ma passata la paura per molti cala l’attenzione e le terapie si ‘diluiscono’, spesso addirittura s’interrompono. Eppure sono proprio quelle terapie a tenere lontano un nuovo infarto, ad iniziare da quella per abbattere il livello di colesterolo. Abbattere, non solo abbassare. «La scarsa aderenza alla terapia – dice Claudio Rapezzi, Direttore UO Cardiologia Policlinico di S. Orsola, Bologna e Alma Mater-Università degli Studi di Bologna – è una condizione tipica di molte malattie croniche. Nel caso di un paziente con infarto miocardico acuto questo meccanismo cambia nel momento del ricovero ospedaliero: c’è la grande paura, la presa di coscienza del pericolo e la promessa a se stessi che da quel momento in poi si seguirà uno stile di vita sano e si sarà diligenti con le terapie. Il medico deve sfruttare questo periodo di crisi per inculcare il germe del percorso virtuoso. Una presa di coscienza non solo da parte del paziente ma anche da parte del medico, che dovrebbe prestare particolare attenzione al profilo di rischio del paziente e all’importanza di impostare sin da subito una terapia cronica che possa garantire efficacia e tollerabilità nel tempo. I pazienti ad alto rischio devono abbassare il colesterolo LDL senza limiti verso il basso, anche a 30-50mg/dL. Con la terapia della “doppia inibizione”, una complementare ed efficace combinazione di farmaci (associati nella stessa pillola oppure in due pillole distinte), si riesce a ottenere, nei pazienti ad alto rischio e che hanno già un livello di colesterolo LDL sotto la soglia di sicurezza di 70mg/dL, un’ulteriore riduzione del rischio CV relativo. E questo è un risultato eccezionale che non si può ottenere altrimenti. Perché l’unica altra soluzione per abbattere così drasticamente il livello di LDL, già basso, è quella di ricorrere ad una statina molto potente e ad alto dosaggio che però comporterebbe un profilo di sicurezza e tollerabilità meno favorevole, in alcuni casi, ad iniziare dai dolori muscolari diffusi, con un aumento delle probabilità di interruzione del trattamento».
La mancata aderenza è legata a diversi fattori: scarse informazioni, mancata percezione di efficacia delle terapie e impatto degli effetti collaterali, carente comunicazione medico-paziente. La soluzione, dunque, si chiama consapevolezza. Un paziente consapevole è un paziente informato, anche degli studi scientifici: è questa la via per aumentare la fiducia nelle terapie. «Solo un terzo dei pazienti nel primo anno dopo l’evento cardiovascolare – dice Gaetano Maria De Ferrari Professore di Cardiologia, Università degli Studi di Pavia, Responsabile Unità Coronarica, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Pavia – raggiungono gli obiettivi suggeriti per il colesterolo LDL, e dopo l’anno diventano un quinto. Molti pazienti sanno quali valori di pressione o di glicemia non devono superare, quasi nessuno quale valore di LDL. Per gli addetti ai lavori, lo studio IMPROVE-IT è stata una conferma importante che, adesso, deve essere correttamente comunicata al paziente affinché si traduca in un effettivo cambio di marcia nel trattamento post infarto. E’ il più lungo studio di outcome cardiovascolare che sia mai stato ad oggi realizzato. Un primato che non è un valore simbolico ma che, in realtà, è un’ulteriore conferma di quanto questo studio sia concreto e importante. Uno studio che parla anche italiano: siamo stati il 5° Paese al mondo, con 600 pazienti arruolati. Un risultato importante e che ci deve riempire di orgoglio perché è piuttosto inusuale per il nostro Paese avere un ruolo così significativo».

INTERVISTA AL PROFESSORE MICHELE MASSIMO GULIZIA 

Presidente Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri – ANMCO e Direttore Struttura Complessa di Cardiologia, Ospedale Garibaldi-Nesima di Catania

Si potrebbe definire la malattia degli “eppure”: gli eventi cardiovascolari sono la prima causa di morte, eppure sembrano non fare tanta paura visto che spesso non si modificano gli stili di vita, nemmeno dopo un infarto; le terapie adeguate esistono, eppure spesso sono abbandonate. E di “eppure” in “eppure” si potrebbe andare avanti all’infinito. Per spezzare questa catena è necessario agire, in primo luogo, sul protagonista principale: il paziente. Un compito difficile, nelle mani dei medici.
cuore2Professore, le malattie cardiovascolari restano la prima causa di morte nel mondo occidentale. In Italia, tra il 2001 e il 2011, la mortalità intraospedaliera dell’infarto si è progressivamente ridotta dall’11,3% al 9% mentre le nuove ospedalizzazioni fatali dalla dimissione a 60 giorni sono aumentate dello 0,13% e quelle dalla dimissione ad 1 anno dello 0,53%. Un andamento ancora più evidente nel pazienti con scompenso cardiaco con una mortalità tra la dimissione ed il primo anno pari al 10% (nel 2011). Viene da chiedersi: il paziente italiano segue un percorso post ospedaliero sufficientemente virtuoso?
Sì, nel nostro Paese un paziente segue un percorso assistenziale abbastanza virtuoso e completo. Un percorso con luci e ombre. La rete dell’infarto, per esempio, è una realtà efficace ed efficiente e non a macchia di leopardo tra le Regioni. Al contrario le riabilitazioni cardiologiche in alcune Regioni ci sono, in altre non sono presenti, neppure nella sanità privata convenzionata. Un tallone d’Achille è sicuramente rappresentato dall’integrazione tra Ospedale e Territorio. Una volta dimesso dall’Ospedale, con la prescrizione terapeutica e qualche raccomandazione su come cambiare gli stili di vita, il paziente a casa si trova da solo e spesso non riesce a restare ben aderente agli obiettivi di salute e di stile di vita raccomandati, non allontanando, quindi, adeguatamente i fattori di rischio che sono stati causa dell’infarto o, ancor peggio, non seguendo correttamente la terapia assegnata.
Tra i problemi più significativi nell’assistenza post ospedaliera del paziente infartuato c’è, senza dubbio, quello dell’aderenza terapeutica. Anche qui i dati parlano chiaro: la sopravvivenza a un anno dall’evento di chi abbandona la terapia con statina è nettamente inferiore da chi segue un percorso virtuoso. Perché succede? Perché è così difficile per il medico far comprendere al paziente l’importanza dell’aderenza terapeutica?
C’è un enorme problema di comunicazione tra il medico e il paziente che, tuttavia, non è imputabile completamente al medico. Perché il paziente comprenda a fondo l’importanza dell’aderenza terapeutica è necessario che la comunicazione sia esaustiva e per fare questo serve tempo da dedicare al paziente. La cronica carenza di personale medico e infermieristico, causato dalla continua riduzione degli organici e la mancata sostituzione dei fuoriusciti, rappresenta un problema rilevante. Inoltre il pressing sul medico per la minimizzazione dei giorni di degenza e la sempre maggiore burocratizzazione dell’atto medico fanno sì che il medico non abbia più il tempo necessario da dedicare al momento di counseling al paziente ospedalizzato, atteggiamento che facilita la diminuita aderenza da parte del paziente alle norme e alle terapie prescritte. E poi c’è senza dubbio l’aspetto economico che, in tempo di crisi, non aiuta.
Soffrire di cuore in tempo di crisi complica la terapia?
Senza dubbio. Abbiamo visto anche pazienti che con sacrificio negli anni siamo riusciti a portare al corretto target lipidico, recentemente si sono trovati a fare i conti con decreti assessoriali di alcune Regioni che hanno drasticamente limitato la rimborsabilità di alcune molecole ipocolesterolemizzanti a favore di altre, determinando spesso una diseguaglianza di trattamento tra pazienti appartenenti a regioni diverse, configurando di fatto una Sanità disomogena di seria A, B o anche C tra regioni italiane. Molti pazienti, delle regioni più penalizzanti, si sono visti negare i farmaci regolarmente assunti in precedenza che sono stati sostituiti con altri di diversa potenza, spesso con rialzo dei valori di colesterolo LDL i cui effetti negativi li vedremo negli anni a venire. A questo si aggiunge anche il ridotto numero di accessi ai servizi ospedalieri e territoriali per evitare di pagare ticket, con conseguente minor numero di visite specialistiche e, quindi, di controlli. Ma la spending review arriva fino a casa del paziente: per molte famiglie del ceto medio è cambiata la spesa alimentare; si fa la spesa agli iper-discount e, quindi, spesso si mangia a basso costo e di bassa qualità, privilegiando alimenti conservati, ricchi di grassi e quindi con conseguente peggioramento dei livelli di colesterolo.
img_che_differenze_ci_sono_tra_infarto_acuto_del_miocardio_e_angina_pectoris_5845_origTra le motivazioni della scarsa aderenza terapeutica c’è anche quella legata alla fiducia nelle terapie: i pazienti chiedono sempre più di assumere farmaci con una comprovata efficacia. Oggi, anche grazie allo Studio IMPROVE-IT, i medici possono contare su un’arma in più: avevano una terapia efficace, ora hanno anche uno studio di ampio respiro e grande valenza scientifica. Come comunicare tutto questo al paziente?
Lo Studio IMPROVE-IT segna un grande e profondo cambiamento della conoscenza che abbiamo verso la terapia del colesterolo LDL nei pazienti con sindrome coronarica acuta e su come utilizzare i farmaci, in particolare Ezetimibe aggiunto a statina. Ma soprattutto quello che ha rivoluzionato è la condotta clinica del medico verso il paziente ad alto rischio di eventi cardio-cerebrovascolari. Infatti, grazie ai risultati di questo studio, oggi possiamo affermare con certezza che non solo dobbiamo abbassare la soglia del colesterolo LDL, ma addirittura dobbiamo abbatterla sotto il limite di sicurezza di 70 mg/dL. Proprio questa strategia, grazie all’utilizzo di Ezetimibe in associazione a Simvastatina, nello studio IMPROVE-IT ha ridotto del 13% gli infarti miocardici acuti, del 21% gli ictus cerebrali e del 6,4% gli eventi cardiovascolari in genere. E’ un beneficio di gran lunga più ampio di quello che si può ottenere con qualsiasi altra strategia e senza avere quegli effetti indesiderati che si avrebbero con l’utilizzo di statine ad alti dosaggi. E senza indossare il paraocchi economico: nel nostro Paese dopo una sindrome coronarica acuta l’85% del costo complessivo è da attribuire alle nuove ospedalizzazioni e solo l’11% alla spesa farmaceutica e il 4% all’assistenza specialistica. La popolazione dimessa dopo una sindrome coronarica acuta non deve rappresentare un gruppo su cui esercitare strategie di risparmio sul costo dei farmaci: per il rischio clinico elevato, per l’elevato numero di nuovi ricoveri e l’insoddisfacente aderenza/intolleranza alla terapia che, come circolo vizioso, determina nuovi ricoveri. Dobbiamo trattare questi pazienti da subito con la migliore terapia possibile perché la loro re-ospedalizzazione ci costerà senza dubbio molto di più. Anche in termini di vite umane.
Professore, come cambia adesso la terapia del colesterolo LDL nei pazienti con sindrome coronarica acuta alla luce dello Studio IMPROVE-IT?
Se ne dovrà tenere necessariamente conto. Lo deve tenere a mente il medico e ne dovranno prendere coscienza le Istituzioni. Da parte mia ho già rilanciato la riedizione del Documento di Consenso ANMCO/GICR-IACPR/GISE su “L’organizzazione dell’assistenza nella fase post-acuta delle sindromi coronariche” anche alla luce dei risultati dello Studio IMPROVE-IT. Nel Documento era già stato messo in chiaro che bisognava seguire questi pazienti che hanno superato la fase critica in modo mirato. Oggi sappiamo quale strada percorrere; abbiamo appreso, cioè, con ragionevole certezza che alla correzione degli stili di vita e all’aderenza alla terapia dobbiamo affiancare strumenti farmacologici in grado di abbattere la soglia di LDL.

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