Oliviero Toscani ha compiuto 80 anni. La Triennale gli ha dedicato un omaggio di due giorni con vari incontri e la presentazione del documentario a lui dedicato, dal titolo “Chi mi ama mi segua”, diretto da Fabrizio Spucches, e del libro Ne ho fatte di tutti i colori. Vita e fortuna di un situazionista, edito da La Nave di Teseo.
Il Presidente della Triennale Stefano Boeri definisce Toscani ““ragazzo terribile”, inventore geniale di immagini che hanno fatto la storia della comunicazione contemporanea, a volte scardinandone i clichés e sovvertendo i pregiudizi della pubblica opinione.”
Oliviero è nato a Milano, in una casa in piazza XXV Aprile, figlio del primo fotoreporter del “Corriere della Sera” e ha studiato fotografia e grafica all’Università di Zurigo. E’ conosciutissimo a livello internazionale per la forza creativa e provocatoria delle sue immagini. Ha lavorato a Milano, Parigi, Londra e New York. Importante la sua collaborazione con Benetton, di cui ha curato per anni l’immagine. Ha collaborato con marchi famosi, tra i quali Esprit, Chanel, Robe di Kappa, Fiorucci, Prenatal, Jesus, e con diverse istituzioni, realizzando campagne di impegno sociale dedicate alla sicurezza stradale, all’anoressia, alla violenza sulle donne, al degrado del paesaggio, all’osteoporosi, al randagismo, all’integrazione.
A ottant’anni, Toscani non ha perso lo smalto. Il suo sorriso un po’ ironico e beffardo è sempre quello. Fotografare per lui è provocare. Le sue immagini devono creare una qualche reazione in chi le guarda, positiva o negativa che sia, altrimenti non sono riuscite. Nel libro viene definito “situazionista”. Spiega così il suo approccio a un lavoro fotografico: “in vita mia non mi sono mai posto il problema di avere un’idea, di creare dal nulla. Mi si pone davanti un problema, ci ragiono, lo analizzo e l’idea viene fuori. Non sono mai stato assillato dal fatto di avere un’idea”
In Italia diciamo “io faccio il fotografo”. In altre lingue, si dice. “Io sono fotografo”. Con questo Toscani vuole dire che i fotografi veri sono degli autori, cioè creano delle immagini perché pensano che quella foto sia un documento della condizione umana. Il suo è un po’ un lavoro da antropologo. Chi si sciocca davanti alle sue immagini non capisce che esse rappresentano cose che si vedono in realtà, quindi è ipocrita scandalizzarsi.
Alcune sue fotografie sono rimaste nella mente di ognuno di noi e spiegano meglio di tante parole il senso, l’atmosfera, l’idea di un’epoca. Fotografare non è facile. Lui ricorda l’insegnamento di un suo maestro del Bauhaus che suggeriva di non osservare l’oggetto che si vuole riprodurre ma l’aria che lo avvolge, gli spazi che delimitano la figura. E il resto verrà da sé.
Nell’ultima scena del documentario, Oliviero riflette sulla morte. Anche per questo avvenimento estremo ha uno sguardo beffardo e dice: “La morte mi fa ridere” e fa scrosciare una delle sue irresistibili risate. Moriremo eleganti, come ha scritto in un suo libro, o moriremo ridendo?