martedì, Aprile 23, 2024
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LA MILANO NERA NEI PRIMI ANNI DEL NOVECENTO

di Carlo Radollovich

Nei primi anni del Novecento, un contabile preciso e di una certa cultura, tale Alberto Olivo (vedi foto), terminato il suo lavoro cenava tutte le sere presso una vicina trattoria ove amava gustare i piatti tipici della cucina milanese, ben innaffiati da un generoso vino rosso.

Presto prese in simpatia la giovane cameriera, Ernestina Beccaro, che qui prestava servizio, attratto dal suo brio, dalla sua spigliatezza e dalla sua giovialità. Si incontrarono spesso anche dopo cena, non appena terminati gli impegni della ragazza in cucina, e dopo qualche tempo Alberto Olivo decise di chiedere la sua mano.

I primi mesi dopo la loro unione trascorsero in modo dolce, ma si evidenziava sempre più la differenza culturale tra i due. Lui appassionato di letteratura, di poesia, di matematica, lei con un grado d’istruzione assai basso, tanto che a mala pena riusciva a leggere e a scrivere. Capitava, da qualche tempo sempre più spesso, che Alberto la insultasse per la sua ignoranza e ciò generava una serie di litigi decisamente accesi.

Nell’appartamentino che avevano preso in affitto in via Macello 25 (ora via Cesare da Sesto), rimbombava l’eco di discussioni molto dure. Ernestina era però decisa di riconquistare il rispetto del marito e decise di prendere privatamente alcune lezioni d’italiano. Ma Alberto, taccagno com’era, contestò subito questa iniziativa di Ernestina, accusandola di aver abbracciato uno stile di vita al di sopra delle loro possibilità economiche.

Lei, arcistufa del comportamento di Alberto, fece chiaramente intravedere la possibilità di lasciarlo definitivamente. Questa minaccia sembrò, provvisoriamente, far diminuire le furiose liti, ma la sera del 16 maggio 1903 dopo l’ennesima, durissima discussione, i due vennero alle mani. Lei impugnò lestamente un coltello, ma lui la disarmò prontamente e affondò la lama nel corpo di lei.

La donna, ormai priva di vita, cadde pesantemente sul pavimento, cosa che impressionò i vicini di casa. Ma il pensiero di Alberto Olivo era uno soltanto: come far scomparire il cadavere. Trascorsero alcuni giorni e alla fine decise orrendamente di farlo a pezzi. Si procurò una valigia decisamente ampia e poco dopo prese la decisione di partire per Genova. Scendendo le scale, i vicini chiesero notizie della moglie, ma lui rispose che era partita per Biella presso alcuni parenti.

Giunto nel capoluogo ligure, si diresse verso il porto e si accordò con un barcaiolo, tale Giacomo Massa, per una breve gita a poche miglia da riva. Mentre i due si trovavano abbastanza al largo, Alberto fece scivolare in acqua la valigia senza farsi accorgere. Ma i miseri resti cominciarono ben presto a galleggiare tra le onde e alcuni marinai, accertata la macabra presenza, informarono la Polizia.

Eccoci ora al primo processo, dopo l’avvenuta confessione di Alberto. La difesa giocò la carta dell’infermità mentale e l’incredibile sentenza si attestò su appena 12 giorni di prigione più un’ammenda di 125 lire per occultamento di cadavere. Al secondo processo entrò in campo come perito Cesare Lombroso, il noto giurista pioniere degli studi sulla criminalità. Venne confermata la stessa condanna, riconoscendo la seminfermità mentale dell’imputato per “iracondia morbosa epilettica”. Alberto Olivo vivrà sino a ottantasei anni e si spegnerà nella sua abitazione di via Goldoni 3. Era il 18 dicembre 1942.

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