di U.P. —
Non me la sento di recensire l’ultimo libro di Michela Murgia. E’ vero che tutto parte dal linguaggio, dalle parole che usiamo. Le parole sono pietre. E non feriscono meno delle pietre. Solo che scorrendo le frasi che la scrittrice elenca, che nascono da pregiudizi contro le donne, ammetto che qualche volta forse anch’io le ho usate E me ne vergogno.
Pensate ad esempio che un attimo fa avrei voluto usare al posto del termine generico “donne” la parola “gentil sesso” ma sono riuscito a fermarmi in tempo, autocensurandomi. Che ci devo fare. Sono difficili da sradicare certe abitudini… Ecco perché non farò una recensione del libro, anche se invito tutti, soprattutto gli uomini, a leggerlo e a prenderne atto. Ma citerò solo qualche stralcio interessante
Le aree semantiche che definiscono una donna che parla sono quasi sempre denigratorie. Se discorre è chiacchierona, linguacciuta, pettegola. Se ribatte è petulante, stridula, sguaiata, aggressiva. Gli aggettivi fanno spesso riferimento all’acutezza del tono vocale, trasmettendo l’idea che il suono della voce femminile aggredisca l’udito piú di quanto potrà mai fare una voce maschile. Un gruppo di uomini che parlano è un consesso dialettico, un gruppo di donne è un pollaio.
Sottovalutare i nomi delle cose è l’errore peggiore di questo nostro tempo, che vive molte tragedie, ma soprattutto vive quella semantica, che è una tragedia etica. L’etica formalmente è quella branca della filosofia che si occupa del comportamento umano in relazione ai concetti di bene e di male, ma nella nostra quotidianità essere etici significa soprattutto scegliere di trattare le cose nominate cosí come le abbiamo nominate. Sbagliare nome vuol dire sbagliare approccio morale e non capire piú la differenza tra il bene che si vorrebbe e il male che si finisce a fare.
La violenza fisica, la differenza di salario, l’assenza della medicina di genere, il divario del carico mentale e del lavoro domestico, la discriminazione professionale e mille altri svantaggi sono concretamente misurabili anche quando non sempre misurati. La politica del linguaggio in questo scenario non sembra la cosa piú importante da perseguire, ma è invece quella da cui prendono le mosse tutte le altre, perché il modo in cui nominiamo la realtà è anche quello in cui finiamo per abitarla. Il silenzio è una virtú, ma solo se sono le donne a praticarlo. Agli uomini nessuno chiede di tacere le loro riflessioni interiori, anzi sono cosí sollecitati a condividerle che è lecito sospettare che prima di parlare parecchi di loro non abbiano riflettuto a sufficienza.
Cosí un uomo che dissente è una voce coraggiosa che non le manda a dire, mentre una donna che dissente è una rompipalle che ha sempre da ridire su tutto.Michela Murgia
La donna che dissente nelle società sessiste ha per definizione qualcosa di scomposto. Quando ti hanno cresciuta facendoti credere che essere femminile volesse dire essere gentile, carina, sorridere anche se non ti va, non negare attenzione né plauso, accondiscendere sempre e mostrarsi obbediente e diligente, vederti smettere di farlo è percepito immediatamente come un atto disordinato, un tradimento della posizione assegnata al tuo genere. Se ti esprimi in forte opposizione non sei una persona equilibrata, ma un’isterica, un’emotiva, un’irrazionale che non sa dominare le proprie passioni, né gli ormoni turbinanti del ciclo.
Per fortuna, secondo Michela Murgia, c’è qualche speranza
Il sessismo, come il razzismo, è una cultura aggressiva: pensare che basti viverci dentro passivamente per non averci niente a che fare è un’illusione che nessuno può permettersi di coltivare. Se agli uomini della mia generazione quest’illusione pare ancora possibile, tra i maschi piú giovani è sempre piú diffusa la consapevolezza di far parte di un sistema di privilegio da cui occorre dissociarsi attivamente. Il merito è delle giovani donne che hanno coltivato una nuova coscienza antisessista e in questi anni hanno trovato il modo per trasmettere ai loro coetanei l’urgenza di un cambiamento congiunto.
Michela Murgia, Stai zitta!, Edizioni Einaudi, Super Et Opera viva, 13,00 euro