All’Art Studio 38 di via Canonica si è aperta il 16 maggio una mostra davvero prestigiosa. L’esposizione – che resterà aperta fino al 31 maggio – offrirà ai visitatori l’opportunità di conoscere in un colpo solo due artisti che operano in campi diversi, pittura e scultura, ma entrambi riconosciuti dal pubblico e dalla critica come innovatori nell’ambito della loro ormai ultradecennale ricerca espressiva. Si tratta di Raffaele Romano e Armanda Verdirame.
Negli spazi dell’ampio salone d’ingresso dell’hotel, le opere trovano una collocazione armonica, che le fa dialogare tra loro in modo creativo e spontaneo, di qui anche il titolo scelto per l’evento “Con-divisioni”, in quanto, al di là dei linguaggi che ne contraddistinguono le diverse peculiarità e le radici ideali che individuano percorsi spesso divergenti, si può cogliere un file rouge che è quello di una faticosa esplorazione alla scoperta di una essenzialità che si muove tra effetti luminosi delle scelte coloristiche nella pittura e austerità primordiale delle sculture.
Raffaele Romano ha accumulato numerose esperienze nella sua parabola artistica. Dopo quelle giovanili che si ispiravano a temi mitologici, ha scelto decisamente l’arte astratta. Il mondo di questo pittore si situa in un universo che richiama sia l’infinitamente grande che l’infinitamente piccolo. Elementi stellari, spaziali o atomi, neutroni che brillano sotto lo sguardo stupefatto dello scienziato-artista?
Non ci interessa saperlo. Escludiamo a priori nel nostro intervento le categorie dell’interpretazione esplicativa e valutativa, come le definisce il linguista Jànos Petöfi, e restiamo su quella descrittiva. In questo caso ci aiuta lo stesso Romano che dice. “Lo spazio è il mio dominio dei colori che fanno il mio universo” e, più oltre, sostiene: “I colori… custodiscono i miei sogni, il mio viaggio nell’esistenza… il mio piacere di fare all’amore con la vita e con il tempo”.
Un collegamento forte e affascinante con il tempo, emerge visibilmente anche nelle sculture di Armanda Verdirame, nelle loro forme semplici e complesse a un tempo, simboliche e definitorie, come totem irridenti, quasi implacabili, testimonianze di un passato che sembra lanciare un tragico ammonimento. D’altra parte, nell’artista è forte la consapevolezza della tragedia ecologica a cui l’uomo, per sua stoltezza, va incontro e uno degli elementi che rappresenta il suo ritorno alla purezza originaria è il seme, ideogramma su cui si incentra la filosofia della scultrice.
Anche a non volerlo, insomma, sentiamo nelle sue opere l’eco delle antiche culture mediterranee, che ci rimandano alla Magna Grecia, soprattutto nei suoi lavori intitolati Colonne, Stalattiti. Anche in questo caso, la ricerca della Verderame , come dice Luciano Caramel, critico d’arte tra i più attenti, diventa un percorso verso una essenzialità archetipa che porta l’artista a cogliere “implicazioni che da personali diventano, per forza appunto del simbolo, generali, dell’uomo in quanto tale, di tutti gli uomini”.