di Ugo Perugini —–
Al San Babila “Non sparate sulla mamma” di Carlo Terron fino all’8 dicembre
I lavori teatrali di Carlo Terron sono sempre un po’ urticanti. E, anche se passa il tempo, non perdono la loro carica eversiva. “Non sparate sulla mamma”, portata in scena al San Babila per la regia di Marco Rampoldi con Stefania Pepe e Roberta Petrozzi, è del 1962, ma l’effetto dissacratorio è ancora pienamente raggiunto.
Terron si propone di prendere in giro il cosiddetto mammismo, fenomeno nazionale, tipico italiano, ma non tanto dalla parte dei figli che hanno difficoltà a tagliare il cordone ombelicale che li lega alle proprie madri, quanto dalla parte delle madri iperprotettive che vogliono evitare ai propri figli esperienze affettive/sessuali troppo traumatiche, inventandosi un paradossale e blasfemo incesto “per interposta maternità”.
Due signore della Milano bene anni Sessanta (i movimenti di contestazione non sono ancora all’orizzonte), l’una vedova, l’altra separata, decidono di svezzare sessualmente l’una il figlio dell’altra, per evitare agli adolescenti il trauma e i pericoli di pericolose avventure con altre donne, che sono – lo dicono loro – “donnacce quando si avvicinano ai figli delle altre”.
Con grande spirito di sacrificio (e una bella dose di ipocrisia), si impegnano in questa missione (non lo fo per piacer mio…) destinata anche a recuperare la loro smarrita femminilità. Terron vuole soprattutto dare uno scossone al mito della madre iperprotettiva e possessiva, che con il suo comportamento impedisce al maschio di diventare uomo, compagno e marito adulto, mettendone in evidenza ambiguità e assurdità.
Alla fine, la sua è anche una critica ad una certa educazione sbagliata che parte proprio dalle madri e porta il maschio a screditare l’universo femminile con conseguenze talora drammatiche che possono condurre ad atteggiamenti di mancato rispetto, fino alla prepotenza, all’egoismo all’idea di amore totalizzante.
Ma, forse, abbiamo esagerato. Terron si è soltanto divertito a creare una storia grottesca per prendere in giro tic, manie, convenzioni , ipocrisie di una borghesia dai labili valori morali. La vicenda va letta e rappresentata, infatti, sopra le righe, come nel teatro dell’assurdo, e il fatto che le due protagoniste recitino anche le didascalie scritte dall’Autore rappresenta un sistema per contribuire a renderle consapevoli della finzione che stanno portando in scena, accentuando il loro distacco dalla realtà.
Questo però non cambia l’effetto complessivo della commedia, condotta con intelligenza, ironia, fino a scoprire il nervo debole di un pessimismo di fondo, talora anche drammatico, immerso peraltro sempre in un dialogo vivace e malizioso, apprezzabile per il sarcasmo ma mai volgare. Alla fine del primo tempo, in attesa che le due donne seducano i rispettivi figli, verrebbe alla mente un finale completamente diverso (negli anni 60 forse impensabile). E cioè che i due ragazzi rifiutino le attenzioni delle donne perché gay e innamorati uno dell’altro. Sarebbe davvero un colpo di scena, nemmeno tanto lontano dalle inclinazioni di Terron.
Mi auguro che il Lettore perdoni questa mia licenza. Tornando al lavoro teatrale, non possiamo non sottolineare la bella prova delle attrici che hanno raccolto una sfida notevole, considerando che questa commedia è stata recitata nientemeno che dalle grandi Lina Volonghi e Lia Zoppelli che la portarono in palcoscenico più di cinquant’anni fa.