Nominato principe della Chiesa il 18 maggio 1894, succedeva qualche giorno più tardi a monsignor Luigi Nazari di Calabiana (1808-1893) e prendeva così possesso dell’arcidiocesi milanese, disponendo subito affinché nel suo stemma episcopale venisse raffigurata l’immagine della Madonnina del Duomo con la scritta: “Tu fortitudo mea”. Entrava nel cuore dei milanesi non solo per la profonda dedizione all’impegno pastorale assunto, ma anche per l’affabilità e la serenità che contraddistinguevano il suo carattere. Il cardinale Ildefonso Schuster disse di lui: “Se vigesse ancora nella Chiesa l’usanza antica di proclamare i Santi a voce di popolo, il cardinale Ferrari sarebbe già canonizzato”. In tutte le opere da lui promosse traspariva una grande forza d’animo nell’educare, nel consolare i deboli e nel sostenere qualsiasi sacrificio a favore del suo gregge. Sembrò per contro vacillare, ma solo per qualche momento, durante i tempestosi giorni del 1898, quando il generale Bava Beccaris, comandante militare in una città assai scossa e in stato d’assedio, gli inviò un pubblico rimprovero, rinfacciando al prelato di non possedere lo stesso polso dei suoi predecessori, Ambrogio e Carlo. Non risultano sue specifiche risposte al generale, anche se le diede, in forma indiretta: aiutò infatti diverse famiglie che erano state coinvolte negli incidenti, in cui perirono un centinaio di manifestanti contro il carovita. Cessati questi sanguinosi moti, lo ritroviamo susseguentemente a capo di un pellegrinaggio effettuato in Palestina, quando le sue accorate parole, pronunciate ad Emmaus, sulla necessità di ritrovare ovunque pace e concordia, ebbero una suggestiva eco a livello internazionale. Nel 1915, la Grande Guerra provocò in lui un enorme sconforto, ma non si perse d’animo: non si stancava infatti di raccogliere richieste d’aiuto, di sostentamenti vari, addirittura di pane, richieste che gli pervenivano incessantemente come le onde di un mare sempre più minaccioso. Egli ricordava che in quei tristi momenti, grazie alla fede, avvertiva sempre la presenza di una volontà illuminata, possente, che gli facilitava qualsiasi compito. Le sue parole erano sempre distese, evangelicamente alte e fiere, ma qualche volta anche molto dirette, nel tentativo di indispettire gli “irosi” della politica. Si racconta che in occasione della posa della prima pietra della stazione centrale di Milano, alla presenza del re e della regina, un consigliere comunale, l’avvocato Gennaro Melzi, interpellò il sindaco Ettore Ponti per sapere “se nel programma inaugurale fosse compresa l’allocuzione del cardinale”. Il sindaco Ponti rispose pizzicando l’avvocato, sottolineando che Vittorio Emanuele III era re anche per grazia di Dio e che pertanto non si sarebbe potuto rinunciare all’intervento del cardinale. Come già accennato, i milanesi stravedevano per lui. Quando il porporato si ammalò nel 1920, un anno prima della sua morte, erano in molti, in Duomo, che pregavano quotidianamente per la sua guarigione, memori di quanto egli aveva promosso e operato a favore della città di Milano.
Carlo Radollovich