martedì, Dicembre 24, 2024
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Quando manca il respiro…

…dalla conoscenza della malattia alla quotidianità dei pazienti: viaggio nel pianeta BPCO

Precisi ma non troppo nell’assunzione della terapia. Un po’ a disagio con l’erogatore, soprattutto se si tratta di utilizzarlo in pubblico. Consapevoli della gravità della malattia, tanto da confessare tutta una serie di limitazioni nella vita quotidiana – personale, lavorativa e sociale. Rassegnati o quasi a “perdere” qualcosa in termini di qualità di vita anche se la maggioranza, a domanda specifica, risponde di sentirsi in buona salute, in alcuni casi anche in modo eccellente. E’ questo il profilo della percezione della BPCO da parte dei pazienti – il 3% della popolazione italiana – così come emerge da una delle due indagini condotte da Doxa Pharma per verificare, oltre alla conoscenza della malattia nella popolazione generale, il vissuto dei malati attraverso il questionario SF36, lo strumento di misura della qualità di vita correlata alla salute, utilizzato nella letteratura internazionale e versione short del questionario originario del Medical Outcome Study (MOS). Le due indagini vengono presentate oggi a Milano, nell’ambito del progetto di GSK Italia “Nel nome del paziente: il vissuto, l’ascolto, le risposte terapeutiche”, iniziato lo scorso anno con l’asma, l’altra grande patologia respiratoria, e che ha per obiettivo di capire le esigenze direttamente dal malato, per confezionare risposte adeguate e su misura come un abito sartoriale.

La BPCO? Un’illustre sconosciuta!

Solo 1 persona su 2 dei 1000 intervistati (54% donne, 46% uomini) afferma di aver sentito parlare di questa malattia che, lo ricordiamo, diventerà a breve la terza causa di morte sul pianeta, dopo le patologie cardiovascolari e i tumori. Si tratta quindi di una percezione del tutto errata, sia in termini di incidenza che di gravità: tra le malattie menzionate dagli intervistatori – ipertensione, artrosi, diabete, emicrania, asma e, appunto, BPCO – la broncopneumopatia viene all’ultimo posto. Non solo: poco più di 1 su 2 sa che è una malattia diffusa, anche se la stragrande maggioranza (91 nel questionario a risposta multipla) crede che si possa curare con una terapia adeguata, così come sa che la gravità sia spesso sottostimata e cronica. C’è però un buon numero convinto che di BPCO si possa guarire (59), che sia una malattia stagionale (30), si possa curare con rimedi naturali (28) e che addirittura sia una malattia ereditaria (22). Va un po’ meglio sulle cause: 2 su 3 identificano correttamente il fumo di sigaretta, l’inquinamento e l’ambiente di lavoro. Poco più della metà della popolazione, riconoscendo la BPCO come una malattia cronica, riconduce la necessità di assumere i farmaci quotidianamente e con regolarità. A differenza della restante parte che non sa esprimersi o pensa sia sufficiente un utilizzo “al bisogno”. Omogenea poi la dichiarazione di gravità dei disturbi, da tutti riconosciuti come gravi e molto gravi. Un quadro non confermato però dalla percezione della quotidianità delle persone: metà è convinta che il paziente possa comunque condurre una vita normale, mentre l’altra metà ritiene che debba modificare la propria esistenza adeguandola alla malattia.

Nei malati la percezione cambia

In questo contesto, vediamo invece cosa dicono i 150 pazienti intervistati, dei quali il 39% donne e il 61% uomini. Dall’anagrafica emerge subito un dato interessante: il 48% ha più di 54 anni ma la maggioranza ha un’età inferiore, il che significa che la BPCO non è più una patologia solo dell’anziano.

Il campione si divide equamente tra chi ha avuto una diagnosi da tempo, diciamo dai 5 anni in su, e chi l’ha avuta più di recente. In ogni caso non una diagnosi agevole: il 28% lamenta di aver potuto iniziare una cura adeguata solo dopo un anno. Il 72% dichiara di avere sintomi classificati da seri a molto gravi, vale a dire: respiro sibilante; fame d’aria; tosse cronica, senso di oppressione al petto. E a sottolinearne il peso sono soprattutto le persone che hanno avuto episodi di riacutizzazione (82% rispetto al 49% di chi non ha avuto esacerbazioni). Sulle riacutizzazioni vale la pena fare un breve inciso, perché rappresentano, come si vede anche dall’indagine, la linea di demarcazione tra una condizione critica ma gestibile e una che ha un’incidenza pesante sulla salute e sulla qualità di vita delle persone. Su questo, lo vedremo più avanti, si sta concentrando la ricerca per offrire nuove opportunità farmacologiche in grado di rispondere ai bisogni di questa tipologia di malati.

Proseguendo nell’identikit del paziente, 7 su 10 sono quelli che dicono di aver sofferto di riacutizzazioni. In media da 5 o più dopo la diagnosi (34%) e in 1 caso su 2 con la necessità di rivolgersi al Pronto soccorso. Durante la fase di peggioramento, il primo istinto è di chiamare il medico di famiglia, che 6 volte su 10 aggiunge un farmaco alla terapia in corso, mentre quando viene chiamato in causa lo pneumologo 3 volte su 10 modifica la cura. Il primo contatto del paziente – come abbiamo visto – è il proprio medico di famiglia (59%), ma nel 68% dei casi la diagnosi viene posta comunque dallo pneumologo. Specialista che nel 34% prescrive poi la terapia. E come si cura questa gente? Nel 93% assume i farmaci prescritti, mentre un 7% utilizza altri metodi e stratagemmi (omeopatia, inalazioni, aerosol).

Da sottolineare che la terapia difficilmente viene modificata nel corso del tempo (solo 9%), a meno di aggravamenti. Il capitolo terapia è sicuramente interessante. Nel 90% dei casi viene assunta per via inalatoria: il 62% degli intervistati lo fa tutti i giorni o quasi, il 33% durante la fase acuta e il 5% solo in caso di emergenza. Analizzando i due sottogruppi – riacutizzatori e non – la percentuale di chi si cura regolarmente (o quasi) sale al 69%, 7 pazienti su 10, ma gli altri (27%) solo durante le acuzie e 4 quando non possono proprio farne a meno. Sette su 10 portano con sé l’erogatore, ma il 62% confessa il proprio imbarazzo ad utilizzarlo in pubblico.

L’impatto sulla qualità di vita

La percezione della propria qualità di vita è il passaggio forse più contraddittorio e da approfondire. Nonostante la patologia comporti sintomi importanti, la maggioranza dei pazienti si sente in salute (57%): il 7% definisce la propria condizione addirittura eccellente. Eppure quando si va ad analizzare nel dettaglio le limitazioni quotidiane dovute alla patologia, si vede che correre o fare sport, per esempio, diventa impossibile per il 93%;  per l’88% lo è anche salire qualche piano di scale e per il 45% fare il bagno o vestirsi autonomamente. Tutto ciò si ripercuote pesantemente anche sulla vita lavorativa, sociale e di relazione. La maggioranza ammette di aver reso meno di quanto voluto, di aver dovuto limitare alcuni tipi di lavoro, ridotto il tempo e comunque avuto difficoltà nell’esecuzione, soprattutto chi ha avuto episodi di riacutizzazione. Sulla vita famigliare e sulle relazioni sociali la malattia ha ripercussioni da quasi sempre a sempre (42%), o in buona parte del tempo (36%). Un’indicazione per quanto riguarda i punteggi complessivi. Lo score di riferimento della popolazione generale è 43. La salute fisica del campione si attesta a 41, mentre quella mentale si ferma a 39. Stanno meglio i pazienti che non riacutizzano, ma la qualità di vita della maggior parte è complicata: 39,7 per quanto riguarda la salute fisica e addirittura 37 per quella mentale. Chiudiamo con i bisogni. I pazienti chiedono sostanzialmente due cose: terapie migliori ed una migliore efficacia delle cure.

Le risposte di GSK

“GSK è al momento l’unica azienda a vantare soluzioni terapeutiche per tutte le patologie respiratorie. Il dato differenziante è però il percorso di ricerca che ha portato a questi risultati e cioè lo studio dei farmaci partendo dai bisogni dei singoli pazienti. La centralità del paziente è un concetto vuoto se non viene riempito di contenuti che iniziano dall’attenzione, e questa conferenza stampa ne è un esempio. Lo scorso anno abbiamo avuto modo di parlare dello studio Salford, sia in asma che in BPCO, il primo effettuato nella vita reale, che ha voluto confrontare una delle nostre combinazioni terapeutiche, il fluticasone furoato/vilanterolo, un ICS LABA con tutte le altre molecole attualmente disponibili. Un rischio, se ci pensate, ma nella consapevolezza di mettere a disposizione dei malati il farmaco più appropriato.

A riprova dell’approccio di real-life, nello studio IMPACT, pubblicato due settimane fa sul New England Journal of Medicine, una delle riviste biomediche più prestigiose al mondo, studio che ha messo a confronto la nostra nuova triplice terapia, destinata ai pazienti che hanno riacutizzazioni, con due altre nostre terapie consolidate: l’ICS LABA di cui parlavo prima e un LABA LAMA (umeclidinio/vilanterolo), sono stati inclusi anche pazienti con co-morbidità (cardiovascolare, diabetica, con storia di asma), generalmente sempre esclusi dai mega trial. Anche in questo caso si è trattato di uno studio coraggioso, i cui risultati ci hanno però dato ragione e soprattutto hanno dato ragione ai pazienti. Nello studio, la triplice terapia ha infatti raggiunto l’endpoint primario dimostrando di ridurre significativamente il tasso annuale di riacutizzazioni moderate / gravi, oltre che di migliorare la funzionalità polmonare e la qualità della vita. Si è visto inoltre come i tre farmaci insieme siano in grado di abbattere del 34% i ricoveri per riacutizzazioni gravi rispetto al LABA LAMA e del 13% rispetto all’ICS LABA, con un profilo di sicurezza che vede un aumento del numero di polmoniti (nessun caso fatale) rispetto al LABA/LAMA, ma in linea con quanto già osservato anche in altri studi per i farmaci contenenti un ICS”.

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