di Carlo Radollovich
Nel mese di gennaio del 1868, quando si seppe che il musicista veneto Arrigo Boito stava per mettere in scena alla Scala la sua opera, ritenuta sulla carta un lavoro d’avanguardia, molti appassionati milanesi di musica fremevano al pensiero di godersi finalmente lo spettacolo.
Il maestro, appena ventiseienne, già godeva di una certa notorietà, facendo parte di quel gruppo di innovatori che si proponevano di abbattere una tradizione lirica ormai obsoleta, decisi a dare vita ad un nuovo, più moderno stile.
Boito, già dal 1864, era anche un attivo giornalista e in quell’anno annunciava che la musica doveva tra l’altro “attuare un più vasto sviluppo tonale e ritmico”, nonché “imprimere maggiore creazione alla forma”, entrando al tempo stesso in forte polemica con Giuseppe Verdi, classificandolo con un curioso vocabolo: passatista.
La sera del 5 marzo, la Scala era gremita al massimo: tutto esaurito. Erano presenti molti amici del Boito, ma anche diversi avversari, niente affatto contenti per le frecce ricche di dura critica, da lui scagliate contro i maestri contemporanei. E questi avversari manifestavano anche una certa inimicizia a livello personale, anche perché il musicista era stato battezzato “fanciullo prodigio” dall’aristocrazia meneghina.
Ma erano pure presenti persone appassionate e imparziali, desiderose di gustarsi le novità musicali preannunciate nei caffè, nei salotti e persino nelle botteghe della città.
Boito si presentò in teatro accompagnato da una serie di applausi e anche il prologo fu sottolineato da calorosi entusiasmi, tanto che persino i “nemici” non se la sentirono di contrastare quel momento.
Ma poco dopo l’inizio del primo atto cominciarono i guai. Gli infelici cantanti non facevano nemmeno in tempo ad aprire bocca che tutto il teatro, sostenitori esclusi, facevano sfoggio di una incontenibile, ironica ilarità. E più si continuava a suonare, più l’insoddisfazione dei presenti aumentava. Solo con estrema fatica, considerata anche la lunghezza del “Mefistofele”, il giovane compositore riuscì a portare a termine l’esecuzione dell’opera.
Il giorno seguente, l’intera cittadinanza seppe del disastroso fiasco e la stampa locale non fece alcuno sconto al “fanciullo prodigio”, sottolineando come dalla platea, dai palchi e dal loggione si levassero alla fine sibilanti fischi di inaudita violenza. La “Gazzetta Musicale” scriveva tout court: “sarai letterato, insigne giornalista, ma mai autore di opere teatrali”.
Addolorato per l’accaduto, Boito si ritirò in un dignitoso silenzio. Ma contemporaneamente si rimise al lavoro, apportando all’opera notevoli modifiche: la parte del protagonista Faust venne affidata ad un tenore anziché ad un baritono, un intero atto venne soppresso, alcuni pesanti quadri furono tralasciati e l’intera orchestrazione fu ampiamente rivista.
Il pesante impegno rinnovatore del maestro durò ben sette anni e i suoi sforzi furono alla fine premiati. Infatti, quando l’opera ricomposta fu presentata al Teatro Comunale di Bologna il 4 ottobre 1875, si registrò un autentico e caloroso successo, spegnendo certi malumori che riaffiorarono sulla stampa milanese non appena si seppe la notizia della ripresentazione e mettendo soprattutto a tacere i più accaniti avversari del Boito.
Il “Mefistofele” si trasferì in seguito di città in città in un continuo crescendo di trionfi.
E ritornò pure alla Scala, sugli scudi, la sera del 25 maggio 1881. Milano dovette ricredersi dopo aver ascoltato tutte le revisioni apportate e spassionatamente decretò il definitivo successo dell’opera, pure con l’auspicata “benedizione” di Giuseppe Verdi.