di Ugo Perugini
Maurizio Casagrande ci ha provato. Ha provato a mettere alla berlina certi insulsi talk show televisivi e certi orrendi personaggi che gravitano intorno ad essi. E dobbiamo dire che c’è riuscito, usando la chiave della parodia, con ironia e intelligenza e con la tipica arguzia napoletana. E, oltretutto, ha anche divertito il pubblico.
Lo ha fatto cercando di costruire una storia di mostri, quelli che conosciamo dalla letteratura classica o cinematografica: il dottor Jekill, l’ Igor di Frankenstein Junior (che di tanto in tanto si trasforma in un mafioso di Gomorra), il (anzi, meglio, la) fantasma dell’opera, la vampira Carmilla, l’uomo-lupo, la bambola assassina. Compreso l’uomo invisibile o la voce fuori campo. Insomma, le icone horror più classiche. Mostri che alla fine sono decisamente molto simili, anche se forse meno pericolosi, di quelli veri che frequentano certi studi televisivi.
Questi ultimi sono personaggi costruiti a tavolino, senza professionalità, senza dignità, tuttologi ignoranti, alla ricerca ossessionante di consensi, pronti ad accapigliarsi in diretta, alzando il livello dei decibel della loro voce senza dire nulla, se non improperi. Tutti succubi dell’Auditel, per un successo alimentato anche dai sempre più invasivi “social”, e decretato senza alcuna motivazione da un pubblico passivo, quasi rinunciatario, ormai mitridatizzato.
Lo storia non è che un pretesto, ovviamente. Il cantante rock ormai dimenticato Franco Gecchi (cognome italianizzato da Jekill) fallisce nel tentativo di tornare in tv, dopo una ventina d’anni di oblio, in un talk show, che ha un drammatico crollo nell’indice di ascolti. La donna che presenta lo spettacolo televisivo – che è anche la sua compagna – per questo motivo lo lascia. E lui immagina di ereditare una locanda dal suo avo, appunto un Jekill, e prendendo possesso della proprietà, incontra i mostri che abbiamo descritto sopra.
Le gag con queste improbabili creature, che alla fine mostrano in modo palese le stesse deformazioni dei personaggi televisivi che incarnano, sono giochi di parole, scenette, spesso non troppo originali, ma egualmente divertenti, grazie alla bravura di Casagrande, alla sua mimica, alle sue rapide battute, ben spalleggiato dagli attori che lo coadiuvano e sanno stare al suo gioco con leggerezza, senza scadere in volgarità esagerate. Nel sogno, Gecchi si illude di convincere la sua donna di quanto siano mostruosi i colleghi con i quali lavora, di come sia imbarbarita la tv dentro la quale si muove. Crede di riuscirci ma è tutto un sogno.
Dal quale si risveglierà ancora solo e, dopo essersi rivolto al pubblico per invitarlo, in un ultimo accorato appello, a uscire da quel meccanismo perverso di cui sono ormai complici a loro insaputa (?), finirà pazzo, ricoverato in manicomio, come veniamo ad apprendere da un inserto filmato in cui un allucinato Amadeus – anche lui mostro – comunica la ferale notizia.
Teatro contro tv spazzatura, contro showbusiness, quindi. Un bel macht! E Casagrande sa usare tutti i mezzi, anche inserti filmati, per vivacizzare e rendere più dinamica l’azione della commedia, che ha scritto insieme a Francesco Velonà. Un lavoro che, oltre a sorridere, fa riflettere sulla mediocrità di certi personaggi che oggi riscuotono grande successo.
Bisogna pensare, come dice Casagrande, che anche un tempo, in tv c’erano i mostri sacri … che erano mostri di bravura (bello l’accenno iniziale all’intervista su Eduardo, personaggio che la conduttrice ignora completamente). Oggi in tv ci sono solo mostri… di mediocrità. Personaggi, che, come diceva Eco per un noto presentatore, costituiscono “un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello”. Solo che nel frattempo il livello si è ulteriormente e tragicamente abbassato.
Per rialzarlo un po’, faccio una citazione da intellettuale della domenica, con l’intento di riequilibrare le cose. Una frase di Musil presa dal suo romanzo “L’uomo senza qualità” (mai letto tutto, lo confesso!): “Se dal di dentro la stupidità non assomigliasse tanto al talento, al punto da poter essere scambiata con esso, se dall’esterno non potesse apparire come progresso, genio, speranza o miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido e la stupidità non esisterebbe.”
Teatro San Babila dall’11 al 16 dicembre