Una performance straordinaria di otto ore tra sensualità ed energia
“Rave” significa festa scatenata. Guarda caso, nel nostro Paese, uno dei primi interventi politici del nuovo governo è stato proprio una legge contro i “rave illegali”. Anche l’opera “Peak Mytikas”, che è stata presentata il 4 e l’11 novembre al teatro Out Off, dall’originale e poliedrico regista belga Jan Fabre, è anch’essa un “rave” ma rientra in una perfetta organizzazione teatrale e in più può definirsi un “rave mitologico” (vedremo perché).
Non per questo però risulta meno dirompente e stimolante. I messaggi che vengono veicolati dallo spettacolo sono piuttosto forti e, talora, destabilizzanti ma utili ad aprire la mente e renderci più disponibili a una diversa visione del mondo, della vita, dell’amore, del desiderio, ecc. Ma anche della violenza e della guerra. Oltretutto la durata della rappresentazione – oltre otto ore e mezzo filate – conferma la volontà di coinvolgere gli spettatori, farli sentire partecipi di un avvenimento in modo non soltanto passivo.
Certamente Jan Fabre è un personaggio particolare. In Belgio, è stato condannato per violenza e molestie sessuali. Ma, indipendentemente da questi precedenti, sui quali non vogliamo soffermarci, è un regista che pretende moltissimo dai suoi attori, spesso anche al di là della loro resistenza fisica, e le performance che vengono realizzate in palcoscenico lo stanno a dimostrare ampiamente. E’ la stessa resistenza, in un certo senso, che richiede, come abbiamo visto, anche agli stessi spettatori in un tour de force che però, è giusto dirlo, sembra venga molto apprezzato. Anche all’Out Off lo spettacolo ha avuto una caldissima accoglienza. Molti i giovani, ma non solo. E questo può essere sintomatico.
La vicenda, che Fabre ha liberamente tratto da uno scritto di Johan de Boose, immagina che dal Monte Olimpo, dove siedono gli dei, essi dipendano dagli uomini, dai loro sentimenti, negativi o positivi che siano, e che possano appropriarsene attraverso il naso (Mytikas in greco vuol dire anche naso), cioè aspirando gli odori che donne e uomini emanano dai loro corpi, quando vivono, quando fanno l’amore, quando muoiono, ecc.
Un acronimo racchiude tutti questi aspetti positivi (PLUR, in inglese, cioè Pace, Amore (Love), Unità, Rispetto) ma anche quelli negativi e ad essi contrapposti. Il compito del regista è stato quello di realizzare un’opera che anche attraverso il recupero di certi miti riuscisse, al di fuori di certi stereotipi, a farne comprendere il valore e il senso. E i miti sono noti: Edipo, Antigone, Prometeo e, a condurre tutti Dioniso, il dio ambiguo, che danza, invita alle orge, porta la felicità ma anche la follia e la violenza, talora rappresentato (come fa lo stesso regista) con un fallo di cuoio.
In questo contesto, fa capolino anche la teoria “queer”, che prospetta la possibilità (o forse, chissà, l’esigenza) di rielaborare o reinventare i termini più profondi della nostra sessualità. Sono argomenti spesso scabrosi, che i tabù della nostra società tendono a far dimenticare, e la loro rappresentazione può turbare (ad esempio, la scena in cui gli attori mimano ripetutamente coiti con amplessi di tutti i tipi), ma se non altro aiuta a ridimensionare la nostra natura, cogliendo anche gli aspetti meno nobili in funzione, ci auguriamo, liberatoria e catartica.
Il balletto, d’altra parte, ha questa funzione che Fabre sfrutta benissimo, evidenziare l’icasticità delle azioni umane, dare senso rituale a certa gestualità, reiterare, anche ossessivamente, con l’aiuto di una recitazione che si fa di volta in volta preghiera, monito, supplica, condanna (con la voce che cresce di volume) per sottolineare i punti salienti del dramma umano.
Indubbiamente a dare un senso di giusta prospettiva contribuiscono anche le scene, spoglie, le luci, i fumi e in particolare le musiche, ossessive, tribali, avvolgenti, ritmate come nei gridi di guerra dei Marines, ma anche quelle addolcite dagli interventi del corno e soprattutto dell’arpa, con motivi suggestivi che ripetuti diventano quasi ipnotici. Di assoluto livello l’esecuzione di Alma Auer all’arpa.
Ma un plauso particolare va naturalmente agli attori, davvero eccezionali per le loro prove al limite dell’umano. Meritano di essere citati: oltre alla stessa Alma Auer, Annabelle Chambon, Anny Czupper, Cédric Charron, Conor Doherty, Gustav Koenigs, Irene Urciuoli, Ivana Jozic, Matteo Franco, Pietro Quadrino e Stella Höttler.
In questo spettacolo quello che spicca sul resto infatti è il corpo umano, ripreso in certe scene come in quadri rinascimentali, in altre come bassorilievi romani (bella la scena dei due soldati messi di profilo che avvicinandosi lentamente anziché uccidersi con le loro spade sguainate si baciano in bocca). Il corpo come oggetto di desiderio, ma anche di violenza, di piacere estremo ma anche di morte, come contraddizione vivente nella quale tutti dobbiamo adattarci a vivere.