“Uomini e topi” è una storia che conosciamo. Per il famoso libro di John Steinbeck, scritto nel 1937, e tradotto prima da Cesare Pavese e recentemente riproposto nella versione di Michele Mari, e il film del 1992 di e con Gary Sinise e l’interpretazione di John Malkovich.
E’ la storia di due disgraziati George e Lennie che lavorano alla raccolta di orzo. Sempre insieme a condividere anche i sogni di un futuro migliore. George piccolo ma sveglio e Lennie, gigante, pieno di forze ma ingenuo, rimasto bambino, in preda ai suoi impulsi che non riesce a controllare.
Secondo Pavese che tradusse il libro, l’Autore mette in mostra l’America dopo la tremenda crisi del 1929, che secondo le definizioni dello stesso Pavese appare “pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta e feconda, giovane e innocente”.
Insomma, tutte le contraddizioni di un Paese che porta avanti il senso dell’individuo, prima di quello della società: un individuo che deve essere all’altezza del gruppo, altrimenti viene emarginato. E, aggiungiamo noi, un Paese che deve fare i conti con la violenza che si nasconde dietro il vitalismo, la lotta per la sopravvivenza che ispira il suo immaginario pionieristico.
In questo senso, la storia di ingiustizia, sopraffazione e povertà che coinvolge i disgraziati che lavorano i campi alla giornata, ha una dimensione senza tempo (come non pensare allo sfruttamento nel nostro Sud, il fenomeno del caporalato). Un luogo, dove la giustizia trova applicazione sommaria, perché manca il senso della pietà e prevale dovunque il sentimento della disperazione.
Quello che più angoscia è la mancanza di solidarietà. In una società come quella americana è merce rara. Ognuno lotta per sé, per un sogno (avere una fattoria, un po’ di terra da coltivare e animali da allevare ) sempre ostacolato dagli altri e dalle distrazioni continue della vita che non può essere solo sacrificio.
La Compagnia del Teatro San Babila con Leonardo Moroni, Jacopo Sartori, Gianni Lamanna, Marcello Mocchi, Lorenzo Alfieri, Giulia Marchesi, Roberto Ediogu, Felice Invernici, ricostruisce in modo egregio l’atmosfera di quei tempi e l’angoscia della storia di Lennie, il gigante che ci ha fatto tornare alla mente quello decisamente più positivo descritto da Stephen King nel “Miglio Verde”.
Da segnalare la regia di Marco Vaccari, le luci di Stefano Gorreri, i costumi di Matteo Tolve e la scenografia di Francesco Fassone che ha saputo legare con intelligenza le varie scene della vicenda, sottolineate dall’intermezzo martellante della canzone di lavoro.