di Ugo Perugini —
Anche oggi pomeriggio (15 e 30) al San Babila.
C’è bisogno di un po’ di leggerezza, di spensieratezza in questi momenti. Quindi, siate comprensivi, non criticate chi rivedendo “La vedova allegra”, l’operetta-capolavoro di Franz Lehar – ex direttore di banda militare, non dimentichiamolo mai – si diverte. E, senza paura, confessa di ridere alle battute aggiornate e, magari, anche un po’ banali di Niegus, e canta insieme agli attori le arie più famose. A cominciare da quel gioiello di verve e grazia che fa: “E’ scabroso le donne studiar”.
A me è successo, vedendo la prima al San Babila, con la soubrette Elena d’Angelo, che è anche la regista dello spettacolo, e gli altri attori/cantanti, Gianfranco Cerreto, Matteo Mazzoli, Francesco Tuppo, Marita di Leo e Gianni Versino, frizzanti e allegri, anche loro, come un buon bicchiere di champagne; senza dimenticare l’orchestra di Sabina Concari. Mi sono divertito, lo confesso e non me ne vergogno.
La Bella Ėpoque fu un periodo incredibile. La “Vedova allegra” è del 1905. Dovevano passare diversi anni prima che scoppiasse la tragedia della Guerra Mondiale. Che sarebbe stata la prima, ma allora non si sapeva. Gli uomini erano ottimisti, allegri. Le donne, pure. Allegre in tutti i sensi (anche in quello che pensate voi). Ma, in generale, lo spirito che si respirava era ottimismo allo stato puro.
La gente aveva fiducia nel progresso e credeva ancora nel futuro. La scienza e la tecnica facevano passi da gigante, pensiamo solo alla luce elettrica, alla radio, all’automobile, al cinema e anche nel settore della salute si vincevano battaglie importanti. Per dirne una, la tubercolosi, per la quale venne scoperto il vaccino. Le classi più povere avevano sempre il problema di quadrare il bilancio, ma si rendevano conto (o si illudevano?) che qualcosa stava cambiando anche per loro, insieme alle condizioni di vita. C’era chi credeva che si stesse andando incontro a un periodo di pace e benessere. E, magari, di maggiore giustizia…
Nelle capitali europee e nei fastosi palazzi parigini e viennesi, l’aristocrazia un po’ bollita e la borghesia in pieno spolvero, continuavano a spassarsela sul serio. Ovunque, si conduceva una vita brillante, tra spettacoli di cabaret, can-can, cinema, e naturalmente spettacoli di operetta che spopolavano. Davvero formidabili quegli anni, direbbe qualcuno, anni di euforia e frivolezza.
L’operetta non poteva non avere il successo che ebbe (parliamo del grande Strauss e di Lehar) con le loro musiche travolgenti, i loro valzer, che giocando su melodie orecchiabili, nostalgiche, sentimentali ma anche briose e coinvolgenti, avevano dentro di loro una incredibile carica vitale ed erano capaci di trasmetterla a chi le ascoltava. Anche se si dice che forse questo atteggiamento fosse dovuto al presagio che di li a qualche anno le cose sarebbero andate davvero a rotoli. Chi lo sa? Certo è che il divertimento a quell’epoca (un’epoca bella, in tutti i sensi) era una cosa seria, non il cupio dissolvi che ormai attanaglia le generazioni odierne.
In questi ultimi anni, forse ha ragione il vecchio Spinoza, siamo finiti nella spirale delle passioni tristi. Non sappiamo più cosa significa divertirsi, spassarsela in modo sano, senza troppi eccessi. D’altra parte, è tramontata (o quasi) l’illusione di un futuro migliore, e sullo sfondo resta l’incertezza, la precarietà. Ben venga chi ce li fa dimenticare per due ore e mezzo. E, diciamolo a bassa voce, sarebbe bello credere che un Conte (senza allusioni politiche) potesse risolvere il default del suo Paese, semplicemente coronando il suo sogno d’amore!