di U. Perugini
Abbiamo bisogno di ottimismo per affrontare la crisi che attraversa il nostro Paese. Il libro di Paolo Iacci “Il teorema del caffè” e quello di Mauro Ferraresi “Bello, buono e ben fatto” in qualche modo e sotto ottiche diverse sembra possano offrire qualche speranza. Anche il titolo dell’incontro in cui gli Autori hanno presentato le loro opere qualche giorno fa nell’ambito dell’iniziativa Bookcity, appare significativamente propositivo “Fare bene per fare di più (anche con meno risorse)”.
Paolo Iacci usa, come suo stile, l’approccio della metafora per spiegare le contraddizioni italiane. Quale migliore esempio di quello del caffè, offerto in ogni bar con un centinaio di varianti, a testimoniare il nostro esasperato senso individualistico, la nostra grande creatività ma, al contempo, la scarsa capacità di cogliere una visione d’insieme meno frammentaria e più collettiva.
Mauro Ferraresi, docente di sociologia, analizza il settore del “made in Italy”, che tutti ci invidiano, esaminando le realtà imprenditoriali più dinamiche e cercando di individuare i motivi che ci impediscono di valorizzare nel modo più efficace e opportuno i numerosi punti di forza del brand “Italia”.
Un limite, come ricorda Iacci, è anche rappresentato dalle carenze del nostro sistema di management. A causa della crisi un terzo dei manager è stato eliminato e non sostituito. Gli over 50, che hanno perduto il lavoro, o si adattano a impieghi inferiori o restano ai margini. Mentre si constata la perdita di un’intera generazione di giovani (un milione di persone) che non studiano né lavorano. Il problema è che anche tra gli imprenditori c’è paura. Non si investe più e si tende a difendere l’esistente senza affrontare le sfide che la crisi impone.
Ferraresi evidenzia i punti di forza del “made in Italy”: il gusto estetico, la cultura (che ci arriva dal Rinascimento), l’artigianalità, la qualità relazionale, la varietà dei prodotti. Tutte caratteristiche uniche che spesso non siamo in grado di valorizzare a causa della frammentazione delle aziende che ci impedisce di fare sistema, o trovare un meccanismo federativo efficace, pur nel rispetto delle differenze.
Iacci concorda sul fatto che le imprese famigliari siano una risorsa, ma spesso rappresentano anche un limite. Solo il 50% degli appartenenti alla seconda generazione di imprenditori prosegue l’attività famigliare originaria e solo il 15% arriva alla terza generazione. Un caso indicativo è la Luxottica di Del Vecchio, diventata un colosso internazionale sotto la guida di un manager efficiente come Guerra, allontanato poi per beghe famigliari su problemi di governance. Ma analoga miopia la si riscontra anche nel settore pubblico, con comportamenti spesso scorretti sui quali la giustizia, dai tempi troppo lenti, non riesce a intervenire, e che mettono in evidenza la mancanza dell’orgoglio del proprio ruolo e del senso di responsabilità civile che esso richiederebbe.
Le aziende italiane del “made in Italy”, secondo Ferraresi, sono particolarmente forti in tre settori: alimentazione, abbigliamento, arredamento e questo modus operandi può essere allargato ad altri settori economici con altrettanto successo. Il problema però spesso è che le imprese non sanno trasmettere le proprie peculiarità. Secondo Ferraresi, è soprattutto una questione di packaging, cioè di capacità di presentarsi agli altri, veicolando nel modo migliore i propri contenuti. Un’eccezione significativa è rappresentata da Ferrero, la più importante azienda italiana nel mondo.
Accanto al packaging occorrerebbe anche un’azione di education nei confronti dei nostri potenziali clienti. Un altro esempio significativo. Il vino cinese sembra abbia un sapore a metà tra vino bianco e Coca Cola. Ora, dal momento che non possiamo abbassare la qualità dei nostri prodotti enologici per venire incontro ai loro gusti, diventa necessario lavorare sul palato dei cinesi per cercare di farlo diventare decisamente più raffinato.
Ci sono, per fortuna, segnali positivi su cui entrambi gli autori concordano. La crisi ha portato a un cambiamento dello stile di vita, più sobrio, più attento, che non significa per forza l’avvento di una decrescita felice, spesso vista come rinuncia o pauperismo, ma un sistema per evitare almeno una “crescita infelice”. Stiamo passando lentamente da un’economia del possesso a un’economia della condivisione, dove sembra prevalere la “comunitas” per rendere migliore la vita. Così come si sta verificando una lenta ma progressiva riappropriazione del tempo per dedicarsi a se stessi, allo sviluppo dei rapporti umani, alla valorizzazione degli aspetti culturali, ecc. Come suggerisce Francesco Morace, sociologo coautore del libro di Ferraresi, questi nuovi paradigmi sembrano adeguarsi alle qualità più tipiche del sistema italiano. Dovremmo quindi spingere perché le nostre aziende pensino sempre di più in modo localistico senza dimenticarsi mai di confrontarsi a livello globale. Insomma, stare nel locale guardando al globale, allo stesso modo in cui ogni individuo deve cercare di stare “nel presente guardando al futuro”.
E finiamo con una citazione positiva di Albert Einstein, tratta dal libro “Il mondo come lo vedo”: “… Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c’è merito. E’ nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla.”
Entrambi i libri citati sono editi da Guerini Next.
Mauro Ferraresi, Bello, buono e ben fatto. Marketing, comunicazione & vendite, 23 euro
Paolo Iacci, Il teorema del caffé, 12,50 euro.