di Stefania Bortolotti
“Sono anziani e in lieve maggioranza donne in condizioni di salute precarie. Sono persone in terapia con trattamenti non sempre ottimali e destinati in un caso su due a ripetuti ricoveri, che peraltro nella metà dei casi non sono di natura cardiovascolare.” questo l’identikit dei pazienti italiani affetti da scompenso cardiaco, osservati nella “vita reale” e non attraverso “l’ambiente protetto” degli studi clinici che escludono alcuni gruppi di popolazione.
Lo scompenso cardiaco, che colpisce quasi un milione di pazienti nel nostro Paese, è una sindrome invalidante, per la quale il cuore non è più in grado di pompare una quantità sufficiente di sangue nell’organismo, che può avere conseguenze letali. Si tratta di una patologia ancora più aggressiva di alcuni tumori avanzati e la sua incidenza è in costante crescita a causa di stili di vita non salutari, dell’aumentata sopravvivenza dopo un infarto e dell’invecchiamento della popolazione.
Circa il 30% dei pazienti muore a un anno dalla diagnosi e il 50% a cinque anni.
Considerando la finestra temporale di 5 anni, lo scompenso cardiaco ha un tasso di mortalità più che doppio rispetto alla mortalità del tumore al seno (11%-27%), ed è superiore a quella causata dal tumore all’intestino (37%).
A delineare la complessità della gestione dello scompenso cardiaco sono i risultati dello studio ARNO, condotto dal CORE CINECA con il sostegno di Novartis, presentati oggi durante i lavori del congresso ESC 2015 in corso a Londra.
L’indagine si basa sui dati amministrativi di pazienti con diagnosi di scompenso cardiaco ricavati dall’Osservatorio ARNO, di proprietà di CORE CINECA – il maggior centro di calcolo nazionale, gestito da un consorzio tra 70 università italiane – che ha estratto informazioni riguardanti ricoveri, prescrizioni e procedure ambulatoriali di sette Aziende Sanitarie Locali italiane. I dati si riferiscono a un bacino di circa 2.500.000 di assistiti seguiti in un arco temporale di cinque anni, dal gennaio 2008 al dicembre 2012.
“Solitamente i pazienti con scompenso cardiaco sono arruolati negli studi clinici secondo precisi criteri di inclusione ed esclusione e proprio per questo i trial non rispecchiano l’effettiva realtà della popolazione con scompenso cardiaco che osserviamo nella pratica clinica quotidiana”, afferma Aldo Pietro Maggioni, responsabile del Centro Studi ANMCO e coordinatore dello studio ARNO. “Questa indagine ha permesso di valutare le caratteristiche cliniche, l’aderenza ai trattamenti raccomandati dalle linee guida internazionali, la probabilità di andare incontro a un secondo ricovero e, soprattutto, i costi complessivi della patologia nell’anno di osservazione dopo la dimissione.”
Nel periodo considerato, nelle sette ASL coinvolte, sono stati registrati 54.059 ricoveri per scompenso cardiaco. I 41.413 pazienti non deceduti e dimessi con la prescrizione di un trattamento specifico per lo scompenso cardiaco sono stati seguiti per un anno.
Il primo dato che emerge riguarda l’età e il sesso dei pazienti: l’età media è 79 anni, almeno 10 anni in più rispetto a quella riscontrata nei trial clinici; in lieve maggioranza le donne (51%), anche questo un dato quasi doppio rispetto a quello che si osserva nei trial clinici controllati.
Tante le comorbidità, la più frequente delle quali è l’ipertensione arteriosa con circa il 70% dei casi, seguita dal diabete (30,7%), dalla broncopneumopatia cronica ostruttiva o BPCO (30,5%) e dalla depressione (21%). “Se consideriamo l’età media del paziente e le frequenti comorbidità – commenta Maggioni – comprendiamo perché lo scompenso cardiaco è la prima causa di ospedalizzazione negli over 65. La probabilità di essere ricoverati di nuovo entro l’anno è del 56,6%, oltretutto quasi la metà (49%) di queste ri-ospedalizzazioni non è dovuta a cause cardiovascolari, ma ad altri motivi”. L’indagine ha permesso di valutare anche i costi: con una degenza ospedaliera che mediamente supera i 10 giorni, il SSN spende complessivamente 550 milioni di euro l’anno; la spesa annuale per paziente è di 11.800 euro, di cui l’85% rappresentato dai costi di ospedalizzazione.
“Significativo – osserva Maggioni – che il costo delle ri-ospedalizzazioni sia quasi il doppio rispetto a quello del primo ricovero (oltre 7.000 euro vs circa 4.500 per il primo ricovero). Lo scompenso cardiaco è, a tutti gli effetti, la condizione clinica più grave e più costosa tra le patologie croniche e le evidenze dello studio ARNO confermano il peso socio-sanitario ed economico di questa patologia che, a causa della difficoltà a respirare e dell’impossibilità a svolgere la normale attività quotidiana e l’esercizio fisico, compromette gravemente la qualità di vita e il vissuto dei pazienti. I risultati dell’indagine dimostrano la necessità di trasferire i dati ottenuti dai trial clinici nel mondo reale. Alla luce del rilevante numero di riospedalizzazioni dovute a motivi non cardiovascolari, se si vuole intervenire con strategie efficaci e ridurre il peso complessivo di questa patologia, bisogna pensare a un approccio multidisciplinare per trattare il paziente nella sua globalità.”
“Studi come questo evidenziano la complessità di una patologia che nonostante sia tra le più diffuse in Italia è ancora conosciuta poco e male – osserva Oberdan Vitali, Presidente dell’associazione pazienti scompensati cardiaci AISC – è fondamentale per il paziente essere guidato nel proprio percorso di cura, ma anche attore consapevole per prevenire ricadute e potenziali riospedalizzazioni. Il tema dell’approccio multidisciplinare sarà anche oggetto del prossimo convegno nazionale dei pazienti scompensati organizzati da AISC, che si terrà a Roma il prossimo 7 settembre”
I dati dello studio dimostrano anche come le indicazioni suggerite dalle linee guida internazionali rispetto ai trattamenti non sempre vengano utilizzate al meglio. I farmaci inclusi nelle linee guida comprendono ACE-inibitori, beta-bloccanti e inibitori del sistema renina-angiotensina. Tuttavia nuove terapie si stanno affacciando per la cura dello scompenso cardiaco.
“Nell’immediato futuro – spiega Maggioni – avremo la possibilità di utilizzare nuovi farmaci come LCZ696, attualmente in valutazione presso l’Agenzia Europea del Farmaco (EMA) e già approvato dall’FDA, che ha dimostrato una superiorità rispetto agli ACE-inibitori nel ridurre sia la mortalità che i ricoveri. Per adesso dobbiamo cercare di usare al meglio tutto quello che è disponibile: antialdosteronici, beta-bloccanti e gli inibitori del sistema renina-angiotensina”