giovedì, Dicembre 19, 2024
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San Francesco, paradosso vivente

L’intervento di Luigino Bruni, economista e storico, al recente Festival Francescano, è stato molto interessante e ci descrive la figura del nostro Santo nazionale, Francesco, in una luce nuova e davvero inedita.

Il suo rapporto con la povertà è qualcosa di inaudito non solo per oggi ma anche per i tempi in cui viveva. Si mette dalla parte dei poveri non per farli uscire dalla miseria, come ad esempio, si impegnò a fare Teresa di Calcutta. Ma per vivere insieme a loro questa condizione, essere con loro a sopportare la fatica, il dolore, lo strazio di questa terribile condizione umana.

E a quell’epoca la povertà era davvero considerata alla stregua di una peste, alla quale bisognava sfuggire se si voleva sopravvivere, privi di sostentamento e sempre sottomessi alla schiavitù dei padroni. Per fare un esempio: un terzo della popolazione di Parigi, in quegli anni era composto da mendicanti.

Francesco non vuole aiutare quei diseredati a diventare ricchi. Lui che era di famiglia benestante, il padre Bernardone era un commerciante di tessuti, si priva di tutto, anche contro il volere paterno, fino a rimanere nudo, al solo scopo di accogliere la povertà come un’utopia, assurda, irrazionale, contro ogni buon senso, sulla sua pelle.

Parla infatti di “altissima povertà” (nel senso di povertà assoluta) e introduce il concetto di “sine proprio” che significa che una persona non deve possedere nulla che sia di sua proprietà. Pensate che i francescani non potevano toccare il denaro con le mani e nemmeno con il bastone.

Per essere francescani bisognava sopportare enormi rinunce: vivere in continuo stato di necessità, sopportando sacrifici al limite della sopravvivenza, fino a soffrire continuamente la fame. D’altra parte, secondo Francesco, bisogna chiedere molto alla gente che vuole seguire un’idea, se si vuole avere intorno a sé persone che valgono. Altrimenti, se chiedi poco, dovrai accontentarti di persone modeste…

Per assurdo, Gesù è più ricco di Francesco. Suo padre è un artigiano, lui frequenta gente benestante come Zaccheo, Giuseppe d’Arimatea, è invitato ai banchetti.

I francescani, invece, non devono possedere nulla, in polemica con i monaci. Eppure, nonostante queste posizioni assolutiste, fu proprio un francescano, Pietro di Giovanni Olivi, che in qualche modo legittimò l’economia e il mercato.

A quei tempi, i mercanti e i commercianti venivano considerati disonesti e lo scambio economico un furto. Per Olivi, invece, il denaro è anch’esso una merce che però va usata non per sé ma per gli altri.

In un’epoca in cui l’usura dominava con tassi che arrivavano al 20% al mese, Olivi riteneva che fosse giusto ed equo applicare tassi di interessi più ridotti (5% all’anno), dando così il via all’istituzione delle Banche moderne, che si sviluppò attraverso il fiorire di numerosi Monti di Pietà.

Insomma, il mercato in sé non è sbagliato, bisogna solo e sempre cercare di farne un uso corretto e onesto.

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