di Ugo Perugini
Alla Galleria Sozzani è stato presentato il libro “Quando Roma era un paradiso” scritto dal giornalista Stefano Malatesta, edito da Skira, 144 pagine, 15 euro. Ma, ci chiediamo, quando Roma è stata un paradiso? Probabilmente mai. Tantomeno la Roma del dopoguerra, che Malatesta descrive nel suo libro. Roma è sempre, purtroppo, uguale a se stessa. Nel bene (poco visibile, in realtà) e nel male. Chi la ricorda diversa, è perché la vede con altri occhi, quelli dell’adolescenza perduta, ma è solo nostalgia, rimpianto forse. Niente altro.
Roma, come un’immensa trattoria all’aperto, sguaiata, volgare, cinica, senza pudori e senza ideali, non cambia né, forse, cambierà mai. Non sarà un paradiso, certo, ma neanche un inferno. Potremmo definirlo un luogo sospeso, una specie di purgatorio, dove purtroppo i peccati si riproducono in continuazione, spesso con compiacimento, né sembra possibile che qualcuno possa provarsi a purgarli.
La Roma di oggi, quella dei vari furbetti, chiamiamola mafia capitale, affittopoli, o come vogliamo, è degna di quella di allora. Cambiano i contesti non le teste. La malizia, l’ambiguità, il cinismo, la mancanza di scrupoli, il sarcasmo, la volgarità, l’indolenza, l’immoralità caratterizzano testardamente gli stili di vita più seguiti. E’ una città dove, a mio parere, l’ideologia più gretta del popolino ha vinto e continua a stravincere, riuscendo a coinvolgere e prevalere anche su coloro che dovrebbero rappresentare la cultura, l’intellighenzia.
Il mosaico che costruisce lo scrittore, con quel suo modo di scrivere, leggero, elegante, sornione, pronto alla battuta, è fatto di nomi, soprattutto quelli che contano, di storie, pettegolezzi, incontri, che riproducono proprio quel clima, che a chi è al di fuori potrebbe anche apparire becero ma simpatico, grossolano ma schietto, triviale ma arguto. Anche se alla fine, le tirate di cocaina, le ubriacature, le truffe, la mancanza di rispetto per tutti, persone e istituzioni, senza alcuna distinzione, sono il segno inequivocabile di una decadenza, che, però, incredibilmente ha la capacità di perpetuarsi all’infinito.
Leggendo le storie che racconta Stefano Malatesta non si può non sorridere. Magari sorridere amaro. Dai cineasti, tutti comunisti immaginari che sfoggiano “Ferrari” rosso ideologico ai cinematografari ricchissimi, fieri della loro abissale ignoranza, ad artisti ruffiani e poeti mantenuti, ecc.
E, forse, davvero Roma è come la sua cucina: greve e sublime. Concentrata sulla quantità, sulla pesantezza, sui sapori forti, sull’eccesso. E così la sua volgarità, che diventa segno distintivo, quasi di classe, innalzato ad esempio da seguire, a simbolo di una civiltà. Senza che nessuno abbia più l’ardire di metterlo in discussione. Anzi, cercando quasi sempre di adeguarvisi.