di Carlo Radollovich
Nel corso di una seduta del settembre 1950, il Consiglio comunale di Milano deliberava, con voto unanime, di consentire la sepoltura al Famedio del poeta e scrittore milanese Delio Tessa.
Si voleva in tal modo onorare la persona e le opere in dialetto di questo autentico meneghino, prematuramente scomparso a soli cinquantadue anni nel settembre del 1939. Le sue liriche sono state lette da parecchi aficionados ambrosiani e non solo, in particolare quelle raccolte e pubblicate da Mondadori in due volumi nel 1932 dal titolo “L’è el dì di mort, alegher” nonché “Poesie nuove e ultime”, pubblicate postume nel 1947 da Francesco De Silva.
La sua produzione poetica e letteraria riflette l’inquietudine della sua personalità, spesso dominata dalla sfiducia riposta negli uomini; infatti, egli è spesso restio ad entrare in contatto con la società e si circonda di pochissimi amici. Eppure, proprio dalla voce umana la sua poesia trae una sorta di soffio vitale, quasi fosse in grado di trasformarla in una musica dalle orecchiabili melodie. In effetti, Tessa si attiene ad una concezione musicale della poesia. E quando recita i propri versi cura l’inflessione della propria voce, dando ritmo ai versi stessi e colorando sapientemente ogni tratto, ogni tocco, ogni aspetto della composizione.
In “Caporetto 1917”, nella “Canzon de l’Olga”, ma anche in “Mort de la Gussona” prevale una buona dose di tecnica dell’impressionismo e ci si chiede, sotto questo aspetto, se i grandi poeti dialettali (Carlo Maria Maggi, Carlo Porta, Giuseppe Belli) sarebbero stati ugualmente grandi se avessero composto le loro opere in lingua anziché in dialetto. A nostro avviso, rimarrebbe comunque ferma, in entrambi i casi, la salda e sicura creazione poetica, perché i pensieri riportati, i moti dell’animo e il gioco stesso dei suoni e delle parole, sarebbero state ben espresse sia facendo uso dell’idioma della propria terra, il dialetto, sia se composte in lingua italiana.
Tutte le situazioni e le figure cantate da Tessa si tuffano, nella loro poetica rappresentazione, nel clima spirituale e materiale di Milano, e si accorpano con le sue vie, le piazze, le case, le osterie dei vicoli, i bastioni, i navigli (sino alla loro copertura). Insomma un linguaggio di vera intuizione poetica, uno dei pregi maggiori delle liriche del Tessa.
Nel suo transitare tra le vie milanesi, sa riprodurre suoni e magiche sensazioni. Talvolta è anche spiritoso. Entra in un ufficio pubblico e viene richiamato da un impiegato all’obbligo del saluto romano. Risponde con tono educato: “Ma io seguo il rito ambrosiano…”.
Capita che si introduca anche nei covi della malavita milanese dove complottano e negoziano ladri e ricettatori. In questi ambienti inconsueti, riesce a catturare l’attenzione dei malavitosi non recitando le proprie poesie, ma accendendo il loro interesse con i versi di Carlo Porta. Essi si mostrano attenti, ad esempio, sentendo recitare “Donna Fabia Fabron de Fabrian”, con il contorno di preti di casa e di maggiordomi, rivelatori di un mondo tanto diverso e lontano da loro, ma dal quale si sentono incredibilmente attratti.
Concludendo la nostra riflessione sullo stile di Delio Tessa, possiamo affermare che l’opera sua, seppure non vasta, seppure non largamente popolare, rivela inconfondibile originalità, tanto da abbracciare toni davvero notevoli di vera poesia.