di Ugo Perugini
Altro che inchieste sui lavori precari, interviste a smarriti impiegati di call center, analisi sociologiche sull’alienazione indotta da certe mansioni! Claudio Pagelli (nel suo libro “La vocazione della balena”, Edizioni L’Arcolaio, 11 euro) ci racconta tutte queste cose, e in modo spesso doloroso e straziante, con lo strumento diretto e incisivo della sua poesia, usando poche parole calibrate, immagini rapinate al volo, flash, brandelli strappati di vita quotidiana, brevi caricature di personaggi mostruosamente anonimi, terribilmente mediocri. Che si presentano vivi e angoscianti ai nostri occhi per un attimo per poi scomparire, come è giusto che sia, in un magma indistinto.
E, per certi versi (è il caso di dirlo) il suo contributo risulta assai più efficace di talune analisi pseudo scientifiche del fenomeno del precariato nel descrivere “il mestiere feroce dell’inganno”. Pagelli ripesca Chisciotte, con la sua volontà di accettare ogni sorta di cose impossibili, per farsi accompagnare in questo mondo di mulini a vento, nei moderni call center, dove “le bocche sono gonfie di parole”,”la lingua galoppa”, “la formula sacra è tatuata sulla lingua” e la si ripete come preghiera all’infinito, mantra ormai logoro, lavorando di ago e filo sulla “seta della finzione”.
Lo sguardo d’insieme ci mostra gli operatori, come un mare in movimento, le cuffie sono meduse, le teste dei giovani delle boe che ondeggiano. Ci coglie il mal di mare, anche se qualcuno è convinto di tenere la bussola dritta, interpretando il movimento degli aghi “che annusano direzioni come segugi.” Nemmeno il terremoto distoglie il capo dalle sue occupazioni maniacali, l’equilibrio “è di carta e l’inganno la sola visione”.
Ma è nella descrizione di alcuni incredibili personaggi che operano in questo mondo parallelo e, per certi aspetti, deviante che Pagelli mostra l’abilità con cui sa tirare di scherma, e, talora, anche di fioretto con le parole. Il suo zoo personale si anima di descrizioni micidiali nello loro essenzialità: la tartaruga, il pollo, le meduse, ecc. Per la pantera, tanto per fare un esempio, bastano due versi a tagliarle addosso i contorni spigolosi che merita: “per quello sguardo barbaro, che odora di fuoco e di fango”.
Deliziosi anche i quadretti della pausa-caffè, quando, abbandonata la “trappola delle parole”, si fumano le sigarette su un balconcino. Qui c’è davvero un pregevole uso delle metafore, dei paradossi, in grado di rendere più raffinata e sensibile la nostra percezione del reale. Li riportiamo perché fanno capire bene quello che intendiamo:
Come draghi in attesa di combustione
sputiamo prove di fuoco dalla bocca
stretti come fiammiferi in scatola
fra i denti nerofumo del balcone.
Ecco che cosa è la funzione estetica della poesia: la capacità di sbilanciamento di un iniziale assetto conoscitivo, di una certa regolarità delle cose del mondo, che altrimenti, come dice lo stesso Pagelli, continuerebbero a vivere nella loro “urticante indifferenza”.
Non mancano poi nel lavoro di Pagelli – che mostra di avere un certa consuetudine con la poesia francese (Baudelaire in primis) – le note ironiche, che diventano sarcastiche, beffarde come nelle poesie raccolte sotto il titolo di “Burattini”. Qualche piccolo, splendido esempio: la manager-cagna, “migliore amica dell’uomo”, il visionario con la sua chitarra, la strega, che si offre per poco e garantisce di far “svaporare la chimera come merita”, l’allenatore, il team leader, l’intervistatore, ecc.
Anche il treno è un luogo di incontri e di personaggi. Appena delineati perché sfuggono nella massa omogeneizzante delle persone ma egualmente colti con grande abilità nei loro gesti, nei loro tic appena percepiti: immagini rapide che trascorrono via in un attimo e finiscono tutti insieme in bocca alla balena (il treno, appunto), come plancton, perdendo qualsiasi individualità, annullandosi in un insieme senza forma e, forse, anche senza vita.
Pagelli, lo abbiamo detto, ha l’abilità di dosare le parole, di delibarle quasi; in alcuni momenti riesce a ricostruire microcosmi reali, astraendoli dalle rappresentazioni consuete, con piccoli, ma decisi, aggiustamenti del suo obiettivo poetico. Usa lenti deformanti, anche, grandangoli, con lo scopo di rompere i vincoli tradizionali che ci legano alla realtà, aiutandoci a compiere un passo verso l’estraneazione e, quindi, ad avvicinarci un po’ di più alla sua propria visione (parola che usa spesso) poetica.