di Carlo Radollovich
La “Imperiale e Regia Gazzetta di Milano” del 7 agosto 1849 titolava: “Cento colpi di cannone annunziavano agli abitanti di Milano che la pace fra l’Austria e il Piemonte è stata siglata dai plenipotenziari di ambedue le parti”. In effetti, il giorno precedente, presso la Villa Reale, il trattato di pace chiudeva la sanguinosa avventura del 1848.
Purtroppo, gli italiani presagivano in cuor loro che non si trattava di vera pace, ma, per certi versi, solo di un modificato prolungamento dell’armistizio di Vignale del 24 marzo 1849, firmato in tale località (oggi in provincia di Alessandria) tra il giovane re Vittorio Emanale II e il maresciallo austriaco Josef Radetzky dopo la disfatta dell’esercito sardo-piemontese del 23 marzo a Novara, disfatta che provocò la ben nota abdicazione di Carlo Alberto a favore del figlio ventinovenne.
Le trattative di pace iniziarono nella nostra città il 13 aprile. Gli austriaci erano rappresentati da un duro negoziatore, il plenipotenziario De Bruck, i piemontesi dai miti e un po’ timidi Boncompagni e Da Bormida (in sostanza, due topini tra le grinfie del gatto). Come previsto, le discussioni non approdarono a nulla di concreto. I negoziati ripresero il 4 giugno e qui si registrò l’abile mossa del governo piemontese: riuscì ad inserirei al tavolo delle discussioni un eccellente diplomatico, Carlo Beraudo conte di Pralormo, tutto sommato non inviso agli austriaci per essere stato a lungo a Vienna dopo il 1821 come rappresentante del Piemonte. Egli seppe riprendere le delicate discussioni con rinnovato slancio e soprattutto con energia persuasiva, finché i negoziati ebbero una felice conclusione alle ore 22 precise del 6 agosto.
Ed ecco un interessante retroscena della pace di Milano: il governo piemontese non avrebbe mai firmato il trattato se non fosse stata compresa la clausola dell’amnistia. Probabilmente si sarebbe accesa nuovamente la guerra piuttosto che abbandonare i fratelli lombardi alle vendette austriache. Scriveva in francese il primo ministro Massimo d’Azeglio: “L’amnistie est une question d’honneur: et sur l’honneur le Piemont ne prend conseil de personne” (l’amnistia rappresenta una questione d’onore: e sull’onore il Piemonte non accetta suggerimenti da nessuno). Ed ecco che, in data 2 agosto, il governo austriaco acconsentiva a concedere l’amnistia. Però tale amnistia (ancora una ferita provocata da Vienna) non doveva essere inserita nel trattato: sarebbe stata proclamata da Radetzky come atto di clemenza sovrana e non per effetto di imposizioni. Purtroppo, dall’atto di clemenza sarebbero stati esclusi i cittadini maggiormente compromessi. Ecco i nomi di maggiore spicco: conte Gabrio Casati, conte Giulio Arese Litta, marchese Giorgio Raimondi, avvocato Franceso Restelli, dottor Pietro Maestri, dottor Gaspare Belcredi, conte Mario Greppi, principessa Cristina Trivulzio Belgioioso, conte Ercole Tadini. L’Austria, con impiego arbitrario della propria autorità si dimostrava davvero implacabile anche in questa circostanza. Solo la seconda e la terza guerra d’indipendenza nonché il conflitto mondiale 1914-1918 avrebbero costretto l’impero austro-ungarico…a più miti consigli.