di Carlo Radollovich
Nel nostro precedente articolo “Milano, l’inizio del potere spagnolo” (18 agosto), esprimevamo tra l’altro seri dubbi sul comportamento e sulla correttezza delle autorità locali, le quali concedevano diverse grazie, con una certa frequenza, ai colpevoli (facoltosi) di diversi reati.
A quei tempi si registravano anche fattacci di enorme gravità, compiuti dai più stretti collaboratori dei governatori spagnoli. Si narra ad esempio di un marchese disturbato nella lettura dalle grida insistenti di un lattaio. Ebbene, il lattaio fu denunciato e messo in carcere. Qui venne condannato a bere tanto latte sino a morirne.
Oppure certi scaricatori di diverse merci, sorpresi a cantare ad alta voce nelle prime ore serali, venivano appositamente attaccati da feroci mastini con le conseguenze che possiamo immaginare.
E ancora: se un incaricato, con tono deciso, sollecitava presso un nobile, per conto del padrone, il pagamento di un importo dovuto, poteva essere condannato con un certo numero di bastonate.
Se poi un criminale veniva catturato, poteva essere condannato, dopo un sommario processo, ad una pena mostruosa: lo squartamento, da eseguire fuori le mura.
La legge non era uguale per tutti. Se un nobile particolarmente in vista non poteva sfuggire alla condanna a morte, questi veniva accompagnato al patibolo con la massima dignità: poteva indossare un abito elegante, sventolava le insegne del proprio casato a lato del carrozzone e i suoi cari pregavano accanto a lui. La decapitazione era riservata ai più ricchi. Dopodiché il corpo veniva sepolto presso la chiesa di San Giovanni alle Case Rotte.
Questi “onori” vennero ad esempio riservati al feudatario Gian Battista Caccia, condannato per omicidio nel 1609 e al marchese Gian Battista Affaitati, avviato al patibolo per aver pugnalato il conte Torelli nel 1625.
Coloro che si macchiavano di colpe meno gravi (tra i più poveri) venivano imprigionati nella squallida prigione della Malastalla, situata nell’attuale via Orefici. La Malastalla, tuttavia, non era l’unico carcere della città. I colpevoli potevano essere reclusi anche nelle prigioni più piccole a disposizione del capitano di giustizia, ma anche in certi reclusori della curia.
Notizia dai contorni incredibili, ma vera: le spese di mantenimento dei detenuti erano a totale carico dei cittadini milanesi. Infatti, ogni famiglia che aveva parenti in carcere era tenuta a pagare una quota fissa giornaliera. Sarà l’imperatrice austriaca Maria Teresa, un secolo più tardi, a stralciare questa norma di legge.
Diversa sorte per le donne ritenute “traviate” e che dovevano prepararsi alla conversione. Venivano recluse presso il Ritiro di Santa Valeria, nella via omonima, ma l’edificio venne poi abbattuto sotto l’Austria da Giuseppe II. Qui il cardinale Federico Borromeo fece imprigionare per tredici anni la ben nota suor Virginia Maria de Leyva, al secolo Marianna de Leyva, la monaca di Monza.