Alcune ricerche statistiche recenti, svolte presso l’Università di Trento, ci confermano un fenomeno che, in fondo, conoscevamo già: la posizione sociale e la provenienza dei genitori condizionano il livello di apprendimento e i risultati scolastici dei bambini fin dalle elementari e si ripercuotono su tutta la carriera scolastica, incidendo sulla possibilità di conseguire una licenza, un diploma, o una laurea.
Naturalmente, non sempre è così. Ci sono delle eccezioni. Tuttavia, soprattutto a livelli di istruzione più elevata, è difficile permettere a coloro che sono partiti in modo svantaggiato di recuperare il divario accumulato. E, chi vi riesce deve fare una fatica nettamente superiore agli altri.
Qualche dato, risalente a una indagine svolta lo scorso anno, può confermare queste affermazioni:il figlio di un dirigente o di un libero professionista ha chance di arrivare alla laurea cinque volte superiori al figlio di un operaio(36,5% contro 7,3%). Inoltre, anche la scelta dello specifico corso di laurea dipende in misura rilevante dalle origini sociali, in quanto i figli di liberi professionisti frequentano maggiormente corsi di laurea che conducono alle libere professioni, quali medicina, giurisprudenza, ingegneria Per quanto riguarda gli studenti figli di genitori immigrati, essi registrano sovente un duplice svantaggio: la fragilità economica delle loro famiglie e le barriere culturali, linguistiche e sociali che ostacolano la loro riuscita scolastica.
Quali azioni possono essere intraprese per contrastare gli svantaggi di natura culturale?
Secondo recenti studi, gli asili nido e le scuole materne di qualità possono incidere positivamente sugli apprendimenti successivi, sui voti e sulla condotta in classe di tutti i bambini, e soprattutto di quelli provenienti da famiglie svantaggiate, attenuandone i rischi di dispersione scolastica.
Parecchie ricerche sperimentali dimostrano in maniera convincente i benefici di questi interventi, soprattutto se sono precoci, intensivi e di qualità. Purtroppo l’auspicio che questo genere di interventi sia realizzato su larga scala è piuttosto velleitario in un Paese come l’Italia, dove solo l’11% dei bambini tra gli 0 e i 2 anni frequenta un asilo nido (dati ISTAT 2011). Infatti l’offerta pubblica di asili nido è palesemente sottodimensionata rispetto alle richieste delle famiglie, mentre il settore privato impone costi sostenibili solo per i più benestanti.
Va segnalato che maggiori investimenti in questo settore avrebbero effetti benefici non solo sulle opportunità di studio dei bambini provenienti dalle famiglie più svantaggiate, ma anche sulle opportunità lavorative delle loro madri e, quindi, sul benessere economico e sulla sicurezza occupazionale complessiva del loro nucleo familiare, derivanti dal fatto di potere contare su due redditi. Questa maggiore solidità economica ridurrebbe a sua volta i condizionamenti economici sui percorsi scolastici. In genere, infatti, una madre poco istruita può ambire a lavori poco redditizi: se mandare i figli al nido ha costi rilevanti, per la madre lavorare rischia di diventare poco o per nulla conveniente, perché i redditi percepiti serviranno in gran parte a pagare le rette dell’asilo.
Inoltre gli interventi prescolari vanno integrati con azioni mirate e personalizzate a favore degli alunni con difficoltà di apprendimento, soprattutto nella scuola di base. Il sostegno iniziale offerto al nido non è sufficiente e la crescita formativa degli alunni richiede continuità. Nel caso poi di studenti stranieri, la fase più delicata è quella dell’arrivo nel nostro Paese: l’integrazione culturale, sociale e linguistica nel nuovo contesto è un prerequisito di fondamentale importanza per il loro successo scolastico prima e per l’inserimento lavorativo poi, e richiederebbe di investire risorse.