di Remo Righi
L’Osservatorio dei lavori dell’associazione XX maggio ha presentato qualche giorno fa a Roma i dati della gestione separata Inps che mostrano come sia drammatica la situazione dei parasubordinati e dei professionisti che vi sono iscritti. Il continuo incremento dell’aliquota della gestione separata – passata dal 10% del 1997 al 27,72% di oggi – ha prodotto un forte decremento del reddito delle partite Iva: se nel 1996 un compenso lordo di 1.000 euro al mese equivaleva a un reddito disponibile di circa 750 euro, oggi ne rimangono in tasca meno di 550. Situazione che potrebbe tragicamente peggiorare perché entro il 2019 l’aumento per la contribuzione pensionistica dovrebbe salire al 33% (riforma Fornero).
Questi lavoratori che rappresentano tipologie piuttosto diverse tra loro (lavoratori indipendenti con partita Iva, free lance e parasubordinati con lavoro a progetto o a termine) sono accomunati dalla medesima situazione critica: non hanno diritto alle tutele riconosciute a tutti contro la malattia, versano un contributo per la pensione ma rischiano di non averla, visto che tali contributi servono a coprire altre gestioni Inps. Non hanno diritto ad ammortizzatori sociali e, soprattutto, hanno redditi sempre più bassi.
E la crisi occupazionale ha colpito anche loro in maniera pesante. Solo nell’ultimo anno hanno perso il lavoro 63 mila tra partite Iva (-21.446) e lavoratori a progetto (-45.137). Dei 250 mila posti di lavoro “atipici” persi in 6 anni circa 150 mila sono ragazzi sotto i 29 anni (60%) a cui si aggiungono altri 99 mila lavoratori tra i 30/39 anni (39%). I redditi dei quasi 650 mila “contratti a progetto” iscritti alla gestione separata si attestano sui 9.953 € lordi annui. Nel caso delle partite Iva, come in quello dei “parasubordinati”, stiamo parlando di una nuova specie di proletariato, di lavoratori poveri.
Ma come è potuto succedere questo? Perché si è sottovalutato il fenomeno. Si è pensato che il lavoro indipendente fosse una fase transitoria, un momento di «precarietà» che riguardava i giovani in cerca di prima occupazione e che in seguito avrebbero trovato un lavoro «stabile». I dati dell’Osservatorio sono lì a smentire questa ipotesi. Parliamo di persone (sono donne il 42% dei parasubordinati, il 50% tra chi lavora solo con la partita Iva) che hanno scelto di essere “indipendenti” oppure, ed è anche più frequente, a causa della crisi, hanno dovuto accettare una nuova condizione.
La partita Iva conviene al datore di lavoro che così non è costretto a pagare i contributi e quindi può assumere e licenziare senza costi. Ma non conviene al lavoratore dipendente mascherato, perché rispetto a un dipendente “normale” non ha alcuna tutela, come abbiamo visto, dalla maternità alla malattia. Senza dimenticare i costi in più, inclusi gli acconti sulle tasse dell’anno successivo, ai quali deve sottostare. D’altra parte, è giusto considerare che non è per nulla facile riconoscere la differenza tra vere e finte “partite Iva” ed è anche difficile cercare di farle emergere attraverso qualche tipo di riforma.
E’ vero che i sindacati hanno fatto ben poco per queste categorie di lavoratori. Ma è anche piuttosto meschino, come fa qualcuno, speculare sullo scontro tra “garantiti” (lavoratori dipendenti) e giovani, con il solito meccanismo di creare l’arcinota “guerra tra poveri”, visto che anche il cosiddetto lavoro stabile sta attraversando una crisi terribile. Definire “garantiti “i lavoratori dopo che dall’inizio della crisi un milione di loro sono stati licenziati non è proprio del tutto corretto. E’ da tempo che i lavoratori garantiti in generale non ce ne sono più. Da quando le aziende e le imprese chiudono, delocalizzano, senza che il governo di turno faccia niente.
Insomma, sembra che la precarietà abbia vinto su tutti i fronti. Il Job acts del governo Renzi potrà cambiare le cose? Anche qui i pareri sono discordi. Fare chiarezza sulla miriade di contratti atipici potrebbe essere il primo passo, come quello del salario minimo, ma restano ancora parecchie ombre sullo sfondo.