di U.P.
L’ultimo lavoro teatrale del festival internazionale del teatro d’Autore, svoltosi presso il Piccolo Teatro Grassi, si è concluso con l’opera di Mariano Dammacco “Esilio”, recitato dallo stesso autore insieme a Serena Balivo.
L’uomo senza lavoro è un uomo che ha perso l’anima – comunque la si voglia chiamare – dice l’Autore. La sua è una verità difficile da contraddire perché la situazione che egli descrive con grottesca crudeltà rientra in un fenomeno che da diversi anni ha cambiato il mondo del lavoro, mostrando di essere ormai irreversibile e che si traduce in una precarietà sempre più diffusa, che porta con sé conseguenze di cui ancora non abbiamo del tutto valutato la drammaticità.
L’omino (impersonato dalla brava Serena Balivo), come un novello Charlot, tentenna, si muove come una marionetta, si angoscia per la sua situazione di disoccupato, passa tutti i tormenti di questa dolorosissima “via crucis”, che lo porteranno all’esilio dal mondo dei viventi.
L’autore analizza con attenta e sadica precisione, attraverso un testo di notevole spessore psicologico, tutte le sfumature del suo stato d’animo di persona espulsa dal mondo del lavoro e, in sostanza, dalla vita: incredulità, sgomento, vergogna tristezza, ossessione, ansia, scorno, rabbia, fallimento, lucidità, reazione…Lo fa però anche con ironia delicata mai troppo corrosiva, in un’atmosfera di trasognato incantamento, resa bene anche dalla recitazione “lunare” della Baglivo.
La disperazione, che viene vissuta dal singolo, abbandonato da tutti, lo porta a immaginare che sia possibile istituire un processo alla fine del quale riesca a comprendere chi è il reale colpevole della sua situazione, disposto persino ad autoaccusarsi per arrivare alla verità; rendendosi conto, ben presto, che nessuno vuole parteciparvi.
Ma anche la disperazione e i pensieri più negativi perdono per il piccolo uomo escluso dall’attività di produzione, il loro senso. A un certo punto, anche il peggio che lui può arrivare a immaginarsi non lo soddisfa più: “Non bisogna aspettarsi troppo dalla fine del mondo”.
Ecco, allora, che nella sua mente si fa strada l’idea di essere vittima di un complotto planetario ai suoi danni e, in modo grottesco, cerca di denunciarlo, rendendosi conto, anche questa volta, dell’assurdità del suo gesto. Per capire il motivo di questo “esilio” dalla società dei viventi, è disposto pure a rimettere in discussione la sua religione, ad accogliere qualsiasi altro credo che gli faccia ritrovare fiducia in se stesso. Ma capisce con amarezza che ciò non è possibile.
La verità sta nel meccanismo economico che non si può più fermare e non guarda in faccia nessuno (o quasi). Un meccanismo che ha contribuito a favorire l’individualismo come una conquista per emergere e che invece si dimostra una trappola da cui è impossibile evadere.
E non c’è più molto da fare. Con un gioco di parole amaro ma acuto si può dire con l’Autore che la nostra coscienza è diventata sciatta, senza stile, senza eleganza, cioè non abbiamo più una coscienza di classe.
Non mancano altre battute che strappano sorrisi come quella sulla “paghetta” chiesta al padre. Poi, quando questi muore, la constatazione che non ci sono più adulti ai quali poter chiedere consigli ma solo bambini che piangono e fanno piangere i più deboli tra loro.
Naturalmente, il nostro omino finirà per compiere la parabola che il sistema ha già predisposto per lui e adattarsi ai lavori precari e malpagati, vivendo in una situazione di perpetua incertezza economica.
Ulrich Beck, sociologo e scrittore tedesco, parlando della situazione del lavoro in Germania, aveva affermato quasi trent’anni fa: “Negli anni settanta un decimo della forza lavoro era rappresentata da lavoratori flessibili nel senso ampio del termine e che sono arrivati a un quarto negli anni ottanta e a un terzo negli anni novanta. Se questa crescita continua o accelera nel giro di dieci o quindici anni almeno la metà della popolazione impiegabile in Occidente lavorerà in condizioni precarie (non contrattualizzate, non sindacalizzate).”
Previsione azzeccata. La disoccupazione, quindi, è un termine destinato a perdere qualsiasi significato. Il mondo del lavoro sempre più si misurerà in chiave di unità di tempo lavorate e di sostenibilità dei redditi rispetto agli standard di vita e non in termini di stabilità del posto di lavoro. Ci piaccia o meno questa è la realtà. Ben vengano, quindi, contributi teatrali che cercano di farci comprendere quello che sta accadendo in bene ma, soprattutto, in male nella nostra società del lavoro.