di Stefania Bortolotti
La solitudine accende le stesse aree del cervello attivate dalla fame di cibo: secondo uno studio pubblicato su Nature Neuroscience, il contatto umano è una necessità base per la nostra mente, come nutrirsi lo è per il corpo. Isolamento e quarantena imposte per il contenimento del contagio provocano un “digiuno” che induce malessere psichico: la solitudine è causa diretta di un caso di depressione su cinque.
I contatti umani sono letteralmente cibo per il nostro cervello, che nella solitudine e nell’isolamento, reagisce come quando abbiamo fame: si attivano le stesse aree e soffriamo come se fossimo privati di un sostentamento indispensabile alla vita. Lo dimostrano i dati di studi recenti discussi in occasione del XXII Congresso Nazionale della Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia, in corso a Milano fino al 29 gennaio: la “fame” di socialità connessa al distanziamento fisico e alle quarantene imposte per il contenimento del contagio ha effetti diretti sul funzionamento del cervello ma, soprattutto, conseguenze negative sul benessere mentale.
L’indagine, pubblicata su Nature Neuroscience, è stata condotta su volontari rimasti a digiuno per dieci ore o deprivati di qualunque contatto umano, reale o virtuale, per altrettanto tempo. L’analisi del cervello con risonanza magnetica nucleare funzionale ha dimostrato che in entrambi i casi si attiva la “substantia nigra”, una piccola area cerebrale coinvolta nel desiderio di cibo e, quindi, anche di socialità. Un cervello privato dei contatti umani perciò soffre e la solitudine, infatti, è causa di un caso di depressione su cinque: anche per questo gli esperti temono un incremento consistente del numero dei pazienti nel prossimo futuro. Già oggi, in circa 600 mila dei 3 milioni di persone con depressione, l’isolamento potrebbe essere il motivo scatenante o aggravante del disagio mentale.
“La solitudine è letteralmente veleno per la nostra salute: sappiamo infatti che indebolisce il sistema immunitario, favorisce la comparsa di molte malattie, ma soprattutto che compromette il benessere mentale – spiega Claudio Mencacci, co-presidente della Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia e direttore del Dipartimento Neuroscienze e Salute Mentale ASST Fatebenefratelli-Sacco di Milano – Abbiamo infatti un cervello sociale, che ha bisogno di contatti umani proprio come abbiamo necessità di cibo per vivere. Non si tratta di una metafora: uno studio pubblicato di recente su Nature Neuroscience ha dimostrato che nel cervello di chi è costretto all’isolamento prolungato si accendono le stesse aree che vengono attivate dalla fame di cibo, con effetti particolarmente evidenti in chi prima di ritrovarsi a lungo da solo aveva una vita piena di interazioni sociali soddisfacenti”.
“Avere interazioni sociali è una necessità umana di base, come nutrirsi: quando è a “digiuno” del contatto con l’altro, il cervello soffre e lo desidera disperatamente – commenta Matteo Balestrieri, co-presidente della Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia e professore ordinario di Psichiatria all’Università di Udine – Purtroppo le regole di isolamento e distanziamento sociale imposte per contenere la pandemia di Covid-19 in corso stanno aumentando la solitudine, con effetti marcati proprio nelle fasce d’età che per motivi diversi tendono più spesso ad allontanarsi dal resto del mondo, gli anziani e gli adolescenti”.
La solitudine cronica è infatti un problema particolarmente diffuso in chi non è più giovanissimo: secondo il rapporto ISTAT 2018, il 40% degli over 75 non ha nessuno a cui rivolgersi in caso di bisogno e proprio i più anziani sono ora costretti a stare lontani dagli altri per proteggersi dal contagio. Anche l’adolescenza è uno dei periodi della vita più a rischio di solitudine e la pandemia l’ha accentuata, con la didattica a distanza e le relazioni sempre più spesso soltanto virtuali.
“Purtroppo la mancanza di contatti umani, oltre a renderci “affamati” di conversazioni, strette di mano e abbracci, ha conseguenze gravi sul benessere mentale – aggiunge Mencacci – Un’indagine in over 50 pubblicata su The Lancet Psychiatry ha infatti dimostrato che almeno un caso di depressione su cinque è direttamente provocato proprio dall’isolamento sociale e dalla solitudine che ne deriva. Le regole di distanziamento fisico e sociale imposte per affrontare l’attuale pandemia stanno perciò agendo da detonatore per il malessere psichico, che va riconosciuto, diagnosticato e curato prima che trascini i pazienti in una spirale di sofferenza”.
“I medici di famiglia sono i primi a poter riconoscere i segnali di disagio mentale, ma in caso di depressione poi serve il consulto con lo specialista – conclude Balestrieri – Oggi possiamo intervenire efficacemente con farmaci che riescono a migliorare la qualità della vita dei pazienti con depressione, anche nelle fasce d’età più critiche come la vecchiaia e l’adolescenza, grazie agli enormi progressi della ricerca in neuropsicofarmacologia degli ultimi anni; tuttavia le terapie devono essere prescritte dopo un’accurata diagnosi e gestite dello specialista assieme al medico di famiglia, senza mai cedere al fai da te”.