di R.R.
La compagnia delle Arti, guidata da Antonello Avallone, presenta al San Babila uno dei lavori più conosciuti di Woody Allen, Central Park West. La storia di tradimenti incrociati che Allen racconta con la solita leggerezza e ironia (non è necessario sintetizzarne la trama) individua i comportamenti di una classe borghese che, raggiunta bene o male una certa agiatezza e una certa età, si mette a giocare con i sentimenti propri e altrui, senza per altro fare troppo sul serio. Solo per provare quelle emozioni che altrimenti non sarebbe più in grado di provare, per creare quei drammi fasulli che scimmiottano la vita vera ma che ne sono solo una immagine sbiadita e grottesca. Mentire sapendo che si sta mentendo e che anche gli altri mentono. Fingere sapendo che si sta fingendo e che anche gli altri fingono.
Questo gioco perverso e anche autolesionistico le due coppie lo vivono comunque con partecipazione e ci credono quel tanto che basta. Come è giusto che sia. In questa atmosfera artefatta, Allen ricostruisce i rapporti di coppia, come attraverso uno specchio deformato, avvalendosi di stereotipi fin troppo abusati, e ricorrendo agli inganni, alle bugie, alle ipocrisie che si intrecciano a ritmo frenetico, senza che nessuno abbia un rifiuto o almeno un sussulto morale. E qui, rifulgono di tanto in tanto battute sulfuree, lampi intelligenti di sarcasmo che bisogna cogliere al volo se vogliamo stare al gioco, insieme agli stessi protagonisti della commedia.
Non ci si deve stupire, se in questo ambiente la morale non è merce conosciuta. Ed esibirla sarebbe piuttosto ridicolo. La moglie di Howard non ha spirito materno, vuole restare incinta solo per assomigliare a una sua amica che è diventata madre. Ma alla fine il figlio non lo vuole più. L’affermazione di sé prevale. L’egoismo vince su tutto. E in suo nome è naturale che si possa anche tradire. Allen prova gusto a demolire e ridicolizzare certi modelli “sacri”, ormai privi di senso.
Se vogliamo cogliere una qualche critica alla società, bisogna fare una ricerca meno superficiale. E qualche risultato, qua e là, si ottiene. E non è nemmeno così banale come potrebbe sembrare a prima vista. Allen-Howard, grazie a quel suo atteggiamento un po’ goffo e maldestro, alla sindrome maniaco-depressiva di cui soffre, si adatta benissimo agli pseudo valori della classe borghese e privilegiata, ma anche piuttosto spietata, in cui vive. In fondo, non vuole nulla di più, anche se finge di criticarla, di metterne alla berlina i tanti difetti. Attraverso la sua allegria, i suoi paradossi spesso corrosivi, si nasconde una certa tristezza, per la banalità del vivere quotidiano, per la meschinità del genere umano, per la sua incapacità di cambiare in meglio, preservandosi tuttavia una personale dignità che però è pronto a barattare appena capita l’occasione.
Ma nel suo insieme la commedia è costruita per ridere. E le battute anche se non più freschissime (il lavoro risale al 2006) sono ancora efficaci, anche grazie alla puntuale recitazione dei quattro più una sulla scena. A cominciare da Howard-Allen, impersonato da un brillante Antonello Avallone, che rimanda, senza forzature, allo stile inconfondibile del grande artista americano, Elettra Zeppi, Flaminia Fegarotti, Claudio Morici e infine Maria Grazia Duccilli.
Un lavoro che vive sui tempi molto stretti di recitazione che gli attori hanno saputo rispettare e valorizzare benissimo. Spettacolo divertente e anche intelligente.