di Ugo Perugini
Banksy probabilmente non apprezzerà la mostra che è stata allestita sulle sue opere presso il Mudec. Ma chi può dirlo?
Certamente Banksy, il più famoso street artist al mondo, di cui nessuno conosce l’identità, è contrario al museo come luogo celebrativo dell’arte e spesso ha compiuto raid provocatori nei musei ufficiali, piazzando in modo abusivo proprie opere alla National Gallery di Londra, al Louvre di Parigi o al Metropolitan Museum of Art di New York.
Lui non vuole fare parte del sistema – la scelta dell’anonimato potrebbe avere questo senso – ma contemporaneamente, conosce le leggi perverse che lo regolano e cerca di sfruttarle, non mancando mai di far emergere le contraddizioni che stanno alla base. Fino a distruggere le sue stesse opere, come è capitato alla sua famosa “Ragazza con il palloncino” che è diventata “Love is in the Bin” (L’amore è nel cestino) all’asta di Sotheby’s. Non immaginando (ma forse ne era ben conscio) che con quel gesto il valore delle sue opere si sarebbe raddoppiato, come è successo, nel giro di breve tempo.
Insomma, Banksy ci è o ci fa? Nessuno mette in dubbio che all’origine nei lavori dell’artista di Bristol, la carica eversiva fosse piuttosto alta e, indubbiamente, sincera. La sua protesta condotta sui muri delle strade delle città nasceva con l’intento di coinvolgere un vasto pubblico, di far emergere le contraddizioni di una società dedita passivamente al consumismo, incapace di capire le ingiustizie verso i più deboli, insensibile alla guerra e ai suoi meccanismi distruttivi.
Certe sue opere lo dimostrano chiaramente: pensiamo ai carrelli della spesa nello stagno di ninfee di Giverny o ai sinistri elicotteri da guerra che volteggiano fra gli alberi di un bosco al tramonto, o i raggi laser lanciati da dischi volanti verso pescatori settecenteschi sulla riva del fiume. Il contrasto, il capovolgimento inaspettato delle situazioni ha la forza di far scattare in chi vede queste opere una reazione, magari persino una presa di coscienza.
Il suo impegno politico, d’altra parte, non può essere messo in discussione. Più volte è stato in Israele e nel 2005 realizzò dei disegni sul muro in Cisgiordania, evidenziando la terribile crisi umanitaria che coinvolgeva rifugiati ed emigranti.
La critica d’arte, che ha bisogno di incasellare ogni movimento artistico per poterlo in qualche modo controllare e circoscrivere, ha trovato per lui, come per altri artisti della sua cerchia, definizioni appropriate, sulle quali ci sarebbe da discutere, come situazionismo, brandalismo, détournement, guerrilla art, pop art, ecc.
Una delle più interessanti caratteristiche di Banksy, talora ignorata, è il suo gusto e la sua indubbia abilità per le opere che si avvalgono di soluzioni trompe l’oeil, cioè che, attraverso trucchi visivi, riescono a dare allo spettatore l’illusione di stare davanti a situazioni reali e tridimensionali, mentre in realtà si tratta di semplici dipinti sui muri. E’ una tecnica che ha radici antiche ma che Bansky rispolvera con l’intento di far diventare le strade vere e proprie quinte di uno spettacolo, spesso sadico ma anche ironico, di cui tutti possono essere partecipi.
Su Banksy ci sarebbe tanto da dire, visto il suo articolato linguaggio artistico. Qui, mi piace sottolineare la sua attenzione nei confronti dei più piccoli. Bansky vede in loro sincerità, genuinità, prima che i meccanismi della società capitalista e consumista operino i loro perfidi interventi. Parecchie opere sono dedicate a loro e al loro insito bisogno di trasgredire, guardando il mondo con occhi vergini.
Da segnalare, sempre in questo ambito, la realizzazione della figura della piccola Cosette de I miserabili di Victor Hugo, che recupera da una vecchia illustrazione. La bambina campeggia su una logora bandiera francese, mentre le lacrime che le rigano il viso sono quelle provocate dal gas lacrimogeno che esce da una bomboletta più in basso e ricorda gli scontri con la polizia all’inizio del 2016.
Banksy è contraddittorio, ma, forse proprio per questo motivo, ha saputo e sa essere un grande fustigatore della società di oggi. Per finire, ricordiamo la sua idea di creare “Dismaland”, versione provocatoria di Disneyland, un parco sui generis, fatto di strutture dall’aspetto sinistro, un castello delle fate in rovina, un barcone colmo di richiedenti asilo e un campo-scuola anarchico.
Il topo che immagina Banksy non è il Topolino disneyano (che riproduce sarcasticamente mentre tiene per mano la bambina vietnamita bruciata di una famosissima foto), ma un ratto dal muso affilato, definito «vermine fasciste» (realizzato con la tecnica dello stencil) e che identifica il vero nemico da combattere. D’altra parte, l’artista pensa di “avere il fegato di resistere in maniera anonima e pretendere cose a cui nessuno crede più, come pace, giustizia e libertà”.
La Mostra, presso il Mudec di via Tortona 56, è stata realizzata dal Comune di Milano con il contributo de “Il Sole 24 Ore”, resterà aperta fino al 14 aprile 2019, ed è curata da Gianni Mercurio. Lun. 14,30-18,30; Mar/Mer/Ven/Dom 9,30-19,30; Gio/Sab 9,30-22,30. Biglietti Intero 14,00 €, ridotto 12 €.