di Ugo Perugini
I libri di Paolo Iacci si leggono con piacere e questo è un pregio. Quando scrive non ha atteggiamenti cattedratici né si erge a maître à penser. In lui prevale il buon senso che è una dote non facilmente rintracciabile, specialmente oggigiorno, visto che, come sappiamo, ha la tendenza a nascondersi per paura del senso comune.
E, in più – il che non guasta – Iacci dispone di un quasi inesauribile pozzo di barzellette o aneddoti divertenti che aiutano a capire quello che ci vuole dire.
Finita la parte incensatoria – assolutamente doverosa – veniamo al tema che, pur con un titolo ammiccante e allusivo “Il Fattore C”, tratta purtroppo argomenti tutt’altro che frivoli. Iacci ci mostra come gli italiani (e soprattutto i giovani) negli ultimi anni abbiano perso la speranza nel futuro (ricordate la famosa frase: Non esiste più il futuro di una volta!); si sentono disorientati, sono preda di una autodistruttiva invidia sociale, nutrono paure paralizzanti che li spingono all’isolamento e a un individualismo esasperato. Il tutto, come se non bastasse, in un clima di conflittualità, imbarbarimento dei rapporti sociali sempre più pesante.
Ecco, allora, che fanno capolino tendenze che sembravano sopite: il fatalismo di fondo, caratteristica ancestrale del carattere del nostro popolo, riemerge in tutta la sua baldanza; la banalizzazione e la semplificazione hanno la meglio in nome di un conformismo che appiattisce tutto; il complottismo trova sempre più proseliti i quali, dietro ogni avvenimento, immaginano macchinazioni incredibili, e, per finire, la rivalutazione di atteggiamenti irrazionali conduce spesso molti ad affidarsi alla magia, al gioco d’azzardo, ad assumere atteggiamenti antiscientifici.
In questa atmosfera piuttosto plumbea, nella quale è venuta sempre più scemando la fiducia negli altri ma anche quella nei propri confronti, l’unica speranza possibile sembra attaccarsi al fattore C. Stare fermi e sperare nel colpo di fortuna che cambi le cose. Insomma, preferiamo non vedere i nostri limiti, le nostre responsabilità, soggiacendo supinamente alla logica del tanto peggio tanto meglio. E, piuttosto che opporci a queste idee, e darci da fare, se dobbiamo reagire, lo facciamo cercando di trovare la via d’uscita più semplice e meno impegnativa: la raccomandazione, la conoscenza giusta (amico dell’amico), la furbata a danno degli altri e, se non si trova, ci si affida alla sorte.
Ha ragione da vendere Iacci quando dice che “il più grande spreco del mondo è la differenza tra ciò che siamo e ciò che potremmo diventare”. Non si può sperare in alcun colpo di fortuna se facciamo le cose che abbiamo sempre fatto. Bisogna cambiare, darsi una mossa, agire, anche a costo di sbagliare. “La fortuna per palesarsi ha bisogno di cambiamento, di un approccio alla vita volitivo e attivo”.
Come sostiene Julien Rotter, citato da Iacci, le persone sono portate ad adottare due atteggiamenti che caratterizzano poi il loro modo di intendere la vita. Si tratta del locus of control: ritenere che gli eventi che capitano siano prodotti dal loro comportamento o dalla loro azione o che, al contrario, siano prodotti da cause esterne indipendenti dalla loro volontà.
Tra le altre citazioni di cui è ricchissimo il libro, non possiamo tralasciare “La patente” di Pirandello, portato sullo schermo anche da Totò, con la storia di un menagramo che pretende la patente di jettatore, e un poco conosciuto saggio di Nicola Valletta sempre su questo argomento, da cui estrapola alcune pagine davvero divertenti.
Ma questi sono solo alcuni, modesti, assaggi. A voi il gusto di leggere e scoprire le tante “chicche” che vi propone il libro.
Il Fattore C di Paolo Iacci edizioni Guerini NEXT, €18,00