Si tratta della vasta riserva d’acqua, da molti anni estinta, che si estendeva in territorio lombardo tra i fiumi Adda e Serio. Una vecchia tradizione orale ci dice che questo bacino, dalla profondità assai ridotta, abbracciava una superficie di circa 200 chilometri quadrati e comprendeva, iniziando da nord, parte delle province di Bergamo, Milano, Lodi e Cremona.
Il nome Gerundo deriverebbe dal dialetto “gera”, ossia ghiaia, di cui oggi disponiamo la testimonianza che affiora osservando il nome di una cittadina della provincia di Bergamo e che si chiama Misano di Gera d’Adda. Altri asseriscono invece che Gerundo sembrerebbe nascere dal greco Acheron (Acheronte), il ben noto fiume infernale.
In effetti, come si diceva, la zona appariva non solo inospitale, ma anche paludosa e malsana. E sembra che il corso dell’Adda, nel giro di alcuni millenni, abbia contribuito a formare, con le sue piene autunnali, un’enormità di grandi pozze, le quali, durante la stagione estiva, venivano abbandonate a se’ stesse, quando il fiume rientrava nel suo letto.
Succedeva che le enormi pozze, a primavera, si fondessero tra loro, dando così origine al lago. Certi vecchi raccontano che in quest’acqua paludosa sarebbe cresciuto uno spaventoso mostro, dall’alito pestilenziale, che si nutriva di carne umana. Fu chiamato dai contadini Tarantasio e, ai nostri giorni, l’Eni avrebbe preso spunto da questo “drago” per disegnare il cane a sei zampe adottato dall’Agip.
Ma a proposito dell’alito mefitico del mostro, va ricordato che in zona fuoriuscivano, dal fondo melmoso del lago, pesanti esalazioni di acido solfidrico unitamente a gas metano. E infatti, proprio all’inizio degli anni Quaranta, in località Cavenago d’Adda, venne identificato da parte dell’Agip un importante giacimento di metano, sfruttato dal 1952.
Proprio da queste parti aveva fatto capolino la leggenda relativa ad un serpentone di diversi metri, sempre affamato, che venne finalmente affrontato con coraggio da uno dei capostipiti della famiglia Visconti, un certo Eriprando, per poi ucciderlo. Il nobiluomo avrebbe preso spunto da questa storia per inserire nel suo stemma l’immagine del famoso biscione, arrivata sino ai giorni nostri, nell’atto di divorare una persona.