Figlia di agricoltori, nasce nel 1950 a San Martino di Lupari, in provincia di Padova, e a soli diciassette anni si trova al centro di un importante caso che l’opinione pubblica italiana viene a sapere dai giornali. Viene infatti processata per aver violato gli articoli del codice penale Rocco in tema di interruzione di gravidanza.
La poveretta, rimasta incinta, viene subito abbandonata dal padre del bambino. Teme fortemente la reazione dei genitori, ma in quegli anni ricorrere ad una pratica abortiva è illegale sotto ogni aspetto. E infatti sono previsti da 2 a 5 anni di prigione per coloro che violano l’articolo 546 del codice penale.
Gigliola è dibattuta tra mille pensieri e comunque si decide, considerato lo stato d’abbandono da parte del suo fidanzato, di ricorrere illegalmente all’interruzione della gravidanza. In assenza di anestesia e soprattutto di igiene, si sottopone ad un intervento decisamente primitivo che le provocherà un’infezione.
Nel giugno del 1973 il Pubblico Ministero di Padova chiede un anno perché non risulta che la ragazza si sia pentita. Ex operaia e senza lavoro, con a carico la figlia Jessica, avuta nel frattempo da un marito dal quale si è poi separata, si affida con diverse certezze al movimento femminista.
Senza manifestare vergogna, afferma che ogni donna deve decidere della sua vita e del proprio corpo. E il tribunale di Padova emetterà questa sentenza: “Non si dovrà procedere contro l’imputata per concessione del perdono giudiziale”. Poiché il perdono giudiziale riflette in pratica la colpevolezza, il caso non è da ritenersi chiuso.
La linea di difesa di Gigliola sottolinea che la giovane ha agito in stato di necessità, considerata la sua età nonché l’ambiente arcaico e chiuso del suo paese. La strada è ora decisamente aperta e la revisione della legislazione avverrà nel maggio del 1978 con l’introduzione della legge n. 194. E a seguito di ciò, ogni donna diventa responsabile per le razionali decisioni che vorrà prendere.