Il capolavoro di Dostoevskij “I fratelli Karamazov” trova nella elaborazione drammaturgica di Fausto Malcovati una dimensione nuova che però non snatura l’essenza dell’opera originaria. Al contrario, sotto certi aspetti ne valorizza e analizza, aggiornandoli e approfondendoli, alcuni temi cruciali.
Da sottolineare la notevole prova degli attori, Mario Sala, Antonio Gargiulo, Matteo Vitanza, Giuseppe Gambazza, lo stesso Malcovati, che, sotto la regia di Lorenzo Loris, hanno saputo ricostruire con efficacia e linearità, il groviglio di passioni, odio e violenza che cova nella famiglia Karamazov.
La crisi della famiglia, nucleo centrale della società, corrisponde alla crisi degli ideali che la sostengono. E se questi ideali si sfaldano, ogni cosa, istituzioni, principi, che reggono la stessa società vengono meno.
Ma il nucleo del dramma di Dostoevskij resta la responsabilità degli uomini. Chi è maggiormente responsabile dell’omicidio del padre dei fratelli Karamazov? Il fratellastro Smerdjakov che ha compiuto concretamente il delitto o Ivan, il fratello più intelligente, ateo convinto ma problematico, che lo ha spinto a farlo con la forza delle sue parole?
Il padre Karamazov, dissoluto e immorale, responsabile di una famiglia in continuo conflitto, ha meritato quella fine? Forse, non è importante saperlo perché secondo Ivan, la latitanza di Dio su questo mondo, ci insegna che “tutto è permesso”.
Non è quindi un gesto di giustizia (forse nemmeno di vendetta) il parricidio che è stato compiuto, ma la dimostrazione dell’assurda logica di un mondo senza più Dio. Dove l’ingiustizia si palesa ancora una volta con la condanna dell’innocente fratello Mitja e il suicidio di Smerdjakov, che rifiuta di sentirsi responsabile dell’assassinio.
Il lavoro drammaturgico di Fausto Malcovati non è la riduzione dell’opera di Dostoevskij. Bisogna dirlo subito. Si basa principalmente sull’ultima parte del romanzo. Due sono gli aspetti che l’opera cerca di mettere in evidenza: l’errore giudiziario (l’accusa ingiusta al fratello Mitja) e la responsabilità di Ivan che, come cattivo maestro, ha spinto Smerdjakov a commettere il delitto.
Il punto, dunque, qual è? Sono le parole, che non sono soltanto pietre, ma corrompono, strumentalizzano tensioni e odio tra la gente, e istigano alla violenza e in genere chi le usa e le sa usare bene sono proprio i comunicatori, i politici che possono indirizzare le persone, rimanendo peraltro puliti a guardare i loro disastri, fingendosi non responsabili delle conseguenze che loro stessi hanno fomentato.
L’opera è rappresentata come un vero e proprio processo. Con un giudice che interroga i testimoni e le scene ricostruite come flash-back. I moventi dell’omicidio si intrecciano. La gelosia per una donna contesa tra il padre e il figlio Mitja ma anche l’avidità, il denaro e l’eredità del padre. Sullo sfondo resta il fatto tragico che si sia potuto concepire e giustificare un delitto come il parricidio.
La sconfitta più grande resta quella della giustizia umana che non è in grado di condannare né il colpevole dell’assassinio né il mandante. E che, come capita spesso, fa che a pagare per tutti sia l’innocente, il più debole. Il senso del rimorso o l’estrema aberrazione (non si sa) nei veri colpevoli che restano spingerà al suicidio (Smerdjakov) e alla pazzia (Ivan). Una giustizia postuma che avvelenerà ancora di più una società già in disfacimento.
L’unica speranza che resta è quella rappresentata dal fratello più giovane, Aliosha, debole e incapace di impedire la sofferenza degli altri ma che cerca egualmente con generosità di consolare Ivan grazie alla forza della sua fede. Lui non si illude che sia possibile cambiare il mondo ma è convinto che si possa migliorarlo attraverso il perdono e soprattutto con l’amore e l’umiltà.
IL DELITTO KARAMAZOV – drammaturgia di Fausto Malcovati – Teatro Out Off – fino al 12 febbraio