di Carlo Radollovich
Esprimiamo un giustificato raccapriccio quando in tv o attraverso organi di stampa ci viene riferito un fatto di sangue. Ricordiamo ad esempio le tre persone uccise barbaramente a picconate in città oppure un morto e due feriti, alle porte di Milano, colpiti a pugnalate da un pazzo. E rimane in noi la convinzione che il mondo stia sempre più precipitando in uno spaventoso baratro. In parte, ciò corrisponde a verità, ma fatti disgustosi e impressionanti accadevano purtroppo anche in passato. Citiamo ad esempio i crimini compiuti in via Bagnera (un tempo denominata Stretta Bagnera) da un certo Antonio Boggia (1799 – 1861), un capomastro all’apparenza del tutto normale e dai comportamenti irreprensibili, che in quella strada, in pieno centro, disponeva di un laboratorio. Contattava le sue vittime con modi gentili e conquistava la loro piena fiducia, sino ad ottenere specifiche deleghe per la gestione dei loro patrimoni.
Il primo omicidio a colpi d’ascia riguardò un semplice operaio, nel 1849, che riuscì a depredare del denaro posseduto e che poi seppellì nel suo scantinato. Stessa sorte, l’anno successivo, capitò a un commerciante di granaglie e ad un bottegaio. Successivamente fu la volta di un amico d’infanzia, il quale, tuttavia, riuscì ad evitare i colpi d’ascia del Boggia, scappò dal laboratorio e denunciò subito il fattaccio alla polizia austriaca. Si archiviò il caso come alterco aggravato, incarcerando il capomastro per soli tre mesi.
Ripresi i suoi normali lavori in via Bagnera, nulla faceva presagire che la sua condotta criminale potesse ancora una volta affiorare. Nel maggio del 1861 decise di invitare a casa sua una vecchia conoscente assai benestante. Riuscì ad ottenere la sua fiducia in merito all’amministrazione di una parte del patrimonio e, non appena stipulato il contratto relativo, la uccise, la decapitò e la seppellì nel suo scantinato accanto agli altri cadaveri. Il figlio della donna, preoccupato perché non riusciva a rintracciare la madre, ne denunciò la scomparsa. Dopo le prime indagini, condotte piuttosto vagamente, la polizia giunse a nutrire molti sospetti su Antonio Boggia.
Questi si difese strenuamente, asserendo che il suo comportamento non fu mai riprovevole nei confronti di nessuno, ma venne ben presto smascherato dalle autorità cittadine che, effettuando un sopralluogo nello scantinato del Boggia, scoprirono i quattro cadaveri nascosti. Processato in tempi brevissimi, venne condannato a morte per impiccagione. La sentenza venne eseguita il 18 novembre del 1861 sui bastioni di Porta Vicentina alla presenza di un folto pubblico. Tale condanna a morte, per un civile, fu l’ultima eseguita a Milano.