di Ugo Perugini
Le opere di Willow sono piacevoli a vedersi, gradevoli, ottimiste grazie ai loro colori densi, vivi, ai simboli che si ripetono sempre uguali a se stessi;
firme, stilemi riconoscibili e tranquillizzanti nella loro iterazione continua: riccioli, balloon di fumetti, forme arrotondate simili a teste di bastoni da golf, pronti a colpire una immaginaria pallina, stilizzazioni estreme di animali. In Willow non esistono i pupazzetti antropomorfi, le figure stilizzate che si abbracciano e danzano in un movimento continuo e frenetico, che troviamo in Keith Haring.
Willow cerca piuttosto di rappresentare visivamente e in modo plastico, simbolico, immaginifico la realtà della comunicazione che prevale al giorno d’oggi: il bla bla senza senso, il chiacchiericcio della gente che parla, spesso senza sapere nemmeno quello che dice, attraverso monosillabi, esclamazioni, suoni indecifrabili, in un sottofondo, in un parlottio indistinto, che talora è un bisbiglio, talaltra un mormorio. Lo potremmo definire anche “rabarbaro”, utilizzando la parola che, ripetuta all’infinito nel doppiaggio dei film, simula il brusio della folla.
Se dovessi spiegare visivamente il senso della funzione “fàtica” del linguaggio, ricorrerei proprio ai lavori di Willow, alias Filippo Bruno. Questa funzione indica i messaggi che hanno lo scopo di mantenere, verificare o interrompere il contatto tra mittente e destinatario, con frasi fatte, formule convenzionali di saluto e di augurio, o sistemi per rompere il ghiaccio o mantenere viva la conversazione, senza impegnarsi più di tanto. E’ la schiuma delle nostre relazioni che raramente riesce ad andare in profondità quanto a contenuti e si mantiene a galla con l’unico scopo di far sentire meno sole le persone.
Lo vogliamo definire “mondo liquido” alla Bauman? Si può fare. Ma sarebbe sbagliato, secondo me, attribuire alle opere di Willow un significato prevalentemente fiabesco e onirico. E’ vero che riconosciamo la preponderanza del “nonsense” nelle relazioni tra gli uomini, ma questa constatazione ci porta a considerazioni tutt’altro che positive, a mondi inquieti di incomunicabilità, solitudine, alla rappresentazione di una realtà artificiale, posticcia. Il tutto reso da questo linguaggio originalissimo di cui Willow diventa l’unico depositario autorizzato.
Un linguaggio originale che descrive il nostro modo di intessere relazioni con gli altri, disimpegnate, leggere, senza senso. Una parentesi della ragione che si apre nei nostri dialoghi quotidiani ma che difficilmente si chiude, lasciandoci smarriti, interdetti, quasi ipnotizzati, perché questo flusso continuo di scambi di “niente” è tutto sommato piacevole e distensivo ma ci allontana dalla realtà e non ci accorgiamo nemmeno più che su questo nostro comportamento, ormai radicato, forse c’è chi ci sta speculando.