di Ugo Perugini –
Assistere allo spettacolo di Sarah Kane “4:48 Psychosis” è un’esperienza emotiva molto forte. La scena è spoglia, ricoperta di frammenti di specchi, vetri, con diversi punti luce (“Ricorda la luce e credi nella luce”) che si accendono come le sinapsi di un pensiero che fatica a concentrarsi, alla ricerca angosciosa di una logica unificatrice per ricomporre un’identità frantumata.
Al centro lei, una donna che si racconta attraverso brandelli di pensieri, ricordi evanescenti, echi di conversazioni, scatti d’ira e di rabbia, momenti di dolcezza e spazi nei quali il suo ragionare si perde dietro ossessive ripetizioni, di numeri, di verbi – coaguli di azioni pensate e non agite – strani e ricorsivi riti con le carte. In attesa delle 4 e 48, quando la sua mente ritrova per qualche tempo la lucidità perduta e tutto si fa ancora più cupo e angoscioso.
Elena Arvigo, vestita di rosso, con il viso e la voce da adolescente – che però sa indurirsi e accorarsi con grande padronanza del pentagramma emotivo – in un corpo di donna, è l’attrice che interpreta con grande efficacia questa donna che lotta con la sua malattia mentale (se vogliamo chiamarla così).
E’ lei che ci fa entrare nell’intreccio caotico dei suoi pensieri con delicatezza, coinvolgendoci dalla prima parola all’ultima e, senza dirlo, chiede agli spettatori una partecipazione attiva al monologo. In questo tipo di teatro infatti, lo spettatore non è passivo ma svolge un compito diretto, riuscire a collegare i fili sparsi di una vicenda che scaturisce dalle parole “sparse” della protagonista per costruire una storia il più possibile plausibile. Per cercare di mettere insieme, come pezzi scomposti di un puzzle, tutti i tasselli per ricomporre la sua vita in pezzi.
Il rapporto con i dottori (dottor Questo, dottor Quello) e l’amore per uno di loro che potrebbe aiutarla ad uscire dal tunnel ma che, al contrario, resta per lui solo una paziente da curare. Il rapporto con le medicine: la chimica non serve per guarire, c’è bisogno d’amore. Un bisogno spasmodico di essere riconosciuta, ascoltata, compresa, non essere curata ma essere oggetto di cura, cioè di attenzione e di affetto.
Questo monologo “4:48 Psychosis”, lo dicono tutti coloro che l’hanno portato in scena, non va considerato come l’ultima lettera di una suicida ma una preghiera, una richiesta di ascolto, d’amore. Verissimo. Però, bisogna sapere che l’autrice, Sarah Kane, si è uccisa davvero dopo aver concluso questo suo lavoro. L’ha fatta proprio finita con la vita. Quindi, se non siamo ipocriti, una relazione esiste ed è innegabile.
Ma chi si trova di fronte a questo testo, ha assoluto bisogno di lasciare sullo sfondo quel gesto tragico e definitivo perché è un fardello troppo pesante da sopportare. E allora ammanta questa posizione come una non dichiarata richiesta di discrezione, di postuma delicatezza nei confronti della stessa Autrice, che probabilmente non l’avrebbe mai pretesa.
In fondo a questo atteggiamento non c’è, per quanto possa essere plausibile, la paura della morte. C’è un altro tipo di paura, una paura ancora più angosciante, che tutti noi che siamo rimasti vivi vogliamo scongiurare e che ci tormenta molto di più, cioè quella della solitudine, della disperazione di restare soli, di non essere amati.
Oltre alla magnifica interpretazione di Elena Arvigo, da segnalare l’attenta regia di Valentina Calvani, la scelta particolare delle luci e delle musiche. Nel finale, mentre il pubblico lascia la sala, i Beatles intonano “Let it be” che qualche barbaglio di speranza ce lo lascia: There will be an answer, let it be. Quella risposta che tutti ci aspettiamo…
Lo spettacolo “4:48 Psychosis” di Sarah Kane resta in scena al teatro Out Off – via Mac Mahon 16 – fino al 27 gennaio.